venerdì 12 marzo 2010

La quarta luna - Bianco

Sono rientrato in casa da più di due ore e non riesco a distogliere lo sguardo dallo specchio. Ho gettato la camicia nella spazzatura, mi sono lavato via il sangue dal petto. La ferita è completamente chiusa. Sembra una vecchia cicatrice. Non riesco a capacitarmi della cosa, fino a due ore fa sanguinava copiosamente.
Dal riflesso nello specchio vedo Hikari che si è appisolata sul divano circondata dai cuscini e con il musetto appoggiato sul mio peluches di Stitch. Lo adora quanto me, è uno dei pochi peluches che non ha mai tentato di distruggere o divorare.
Ogni tanto solleva le orecchie, disturbata dai rumori di sottofondo, poi le riabbassa e torna a sonnecchiare. La sua tranquillità di solito è contagiosa per me, oggi non mi fa effetto. Non riesco a non pensare a quello che è successo oggi pomeriggio. Il punto interrogativo dipinto sul viso di Serena, l'aria sconvolta alla vista di tutto quel sangue. Bel primo appuntamento. Evidentemente era destino.
Il cellulare continua a squillare imperterrito. Non riesco a muovermi, l'immagine allo specchio mi incatena.
Accarezzo il vetro, all'altezza del riflesso della cicatrice.
"Ma che cosa mi sta succedendo? Forse sono diventato sonnambulo e mi faccio del male da solo di notte. Come la spiego una cosa del genere agli altri? Come potrei spiegarla a Serena?"
Finalmente il cellulare ha smesso di cantare e il silenzio è tornato a farla da padrone in casa. Dalla finestra aperta sulla strada si sente la voce di qualche passante, qualche automobile che sfreccia; il rumore della sera che scende sulla città prende poco a poco possesso dell'identità asettica e vuota della mia casa. Ho provato a dar libero sfogo alla mia creatività in questo appartamento, a renderlo confortevole e carino alla vista. Ma quello che vedo resta sempre e comunque un bilocale non mio, un appoggio temporaneo in attesa di ritrovare quei frammenti di me che ho perso per strada dopo quello che è accaduto.
Già una volta mi sono sentito in questo modo, a pensarci bene: quando morì mia nonna.
ero profondamente legato a quella donna, così come lo era lei a me. Sono cresciuto con lei, in ogni senso. Non che avessi una madre assente, anzi. Ma ero "costretto" a dividerla con mio fratello e mia sorella e in un certo senso la volevo solo per me. E così credo di essermi attaccato smodatamente e morbosamente a mia nonna. Passavo tutti i giorni con lei; io seduto al tavolino della cucina a fare i miei compiti di scuola, lei a sonnecchiare sul divano con la tv accesa su qualche telenovelas brasiliana o argentina. Mi divertiva ascoltare gli insulti che lanciava contro la sgualdrina di turno nello sceneggiato sullo schermo. Sembrava che stesse guardando scene di vita reale.
Quando morì, un pezzo di me la seguì senza pronunciar parola e lasciandomi dentro un vuoto incolmabile. Oltre a lasciarmi il senso di colpa per averla abbandonata nella fase della crescita, quando subentrano nella tua vita amici nuovi, interessi nuovi, quando perdi la voglia di passare i tuoi pomeriggi ad ascoltare le parole di una donna che fino a qualche attimo prima erano canti soavi e che qualche istante dopo, per qualche oscura ragione diventano noiose parole messe a caso nell'aria, per colmare i vuoti della solitudine che gli anni ti lasciano cadere sulle spalle.
Mi sento così anche adesso. Guardo questa cicatrice strana sul petto e non riesco a non pensare a tutte le volte in cui Zoe mi parlava e io avevo la testa altrove, a tutte le volte in cui mentre lei cucinava per me io giocavo ai videogiochi invece di osservare lei alle prese con i fornelli. A tutte le volte in cui, mentre facevamo l'amore io non riuscivo a non pensare a tutti i problemi che avevo sul lavoro invece di concentrarmi su tutto l'amore che provavo per lei.
Questa cicatrice è qui perchè adesso lei vuole che io mi ricordi di lei, sempre. O forse è qui solo perchè è un monito a tutto il dolore che mi ha causato con la sua menzognera scelta di ritrovare le nostre strade.
La mia strada era accanto a te, Zoe. E tu hai voluto proseguire da sola con accanto un altro uomo.
Il telefono riprende a squillare, forse dovrei rispondere.
"Pronto?"
"Samuel. Stai bene?" Arianna. Che piacere sentirla. La sua voce è preoccupata.
"Certo Ary, è tutto a posto. Perchè?"
"Non lo so. Sensazione strana. Poi non rispondevi al telefono prima e mi sono preoccupata, ma se mi dici che è tutto ok mi fido. Allora, com'è andata con Serena oggi?"
"Con Serena? Mmmmh... bene dai, ma non credo che ci rivedremo. In fondo voleva conoscere solo Hikari."
"Certo che sei proprio tonto, sai? Ma secondo te, cosa può interessarle di un cane se non le interessasse anche il proprietario del cane in questione?"
"Dici? No, non credo. In ogni caso non ci rivedremo comunque. Non devo averle fatto una buona impressione."
Parlare con Arianna è la cosa che più riesce a tranquillizzare il mio animo stanco e devastato a volte. La sua voce, il suo tono, le sue parole esprimono senza mezzi termini la meraviglia che quella ragazza è ingrado di donare senza neppure accorgersene.
E inoltre, pur conoscendola da relativamente poco tempo ho con lei un legame speciale. Qualcosa che supera le barriere e lo spazio tempo. Non credo esistano parole per definire quello che sento per lei. A volte mi sento insignificante dinanzi alla grandezza e all'imponenza del suo essere così rara e preziosa per il mondo. Per la mia vita.
Qualcuno suona al citofono, con insistenza anche.
"Suonano da te?" mi chiede Arianna "Chissà chissà chi sarà alla porta a quest'ora..." la sento sorridere al di là del telefono.
"Scema" le dico, mentre alzo il ricevitore del telefono "Chi è?"
Non risponde nessuno. Sento in sottofondo solo il rumore delle auto.
"Chi è?" ripeto. Al secondo silenzio, decido di riagganciare.
"Samuel, sono io." Serena. La sua voce risuona nel ricevitore e nel mio cervello. Fitta al petto. Stavolta però niente sangue.
"Serena, che ci fai qui? Aspetta lì, scendo giù."
"No, fammi salire" Ah, vuole salire.
"Ok." poso il ricevitore e apro il portone. Stranamente Hikari non si eè spostata di un centimetro al suono del citofono, quasi non lo avesse neppure sentito. "Ary, devo metter giù. C'è Serena."
"Ok, passa una buona serata. Domani voglio i dettagli, ok?"
"Buonanotte tesoro."
"Buonanotte a te." poso il cellulare sul ripiano all'ingresso e mi volto verso lo specchio. Sono ancora a petto nudo, forse è meglio che vada a metere qualcosa addosso prima che arrivi su lei.
Corro in camera e metto una camicia pulita ma non stirata. E' tutta stropicciata, ma tanto lei non si formalizzerà di certo. Mi ha visto tutto sporco di sangue, figuriamoci se le darà fastidio una camicia stropicciata.
Quest'ansia che mi pervade è insopportabile. Vorrà delle spiegazioni, è giusto che le voglia. Ma in fondo, perchè dovrei darle delle spiegazioni. non sono nessuno per lei. Non è nessuno per me. Siamo solo due persone che si sono conosciute per caso.
"Bugiardo. Tu l'hai voluta conoscere!" la mia coscienza è sempre presente e fastidiosamente sincera.
"Permesso?" eccola. Entra con imbarazzo appoggiando entrambe le mani sulla porta per spingerla. E' bellissima.
Mi avvicino e le faccio cenno di entrare in casa. Chiudo la porta dietro di me e cerco di non guardarla negli occhi.
"Scusami se son venuta fin dentro casa tua ma ero preoccupata." alzo lo sguardo e non posso fare a meno di notare che anche lei sta guardando altrove per non incrociare i miei occhi.
"Come facevio a sapere dove abito?" io non glielo ho detto. Come faceva a saperlo.
"Ti ho seguito quando sei andato via. Ho cercato di stare a debita distanza da te ma non me la sentivo di non seguirti. Sembravi sconvolto."
"Serena, sono tornato a casa più di tre ore fa. Sei stata tre ore qui sotto?"
Non risponde ma abbassa ancora di più la testa. I capelli lunghi cadono in avanti, dalle spalle.
"Vieni, ti faccio un caffè." le cingo le spalle con un braccio e la spingo in cucina. Hikari si alza dal divano e con dolcezza le si avvicina iniziando a leccarle le mani con cui stringe con forza la borsetta.
Si siede sul divano e Hikari torna tra i cuscini, accanto a lei. Non parla, sembra quasi non respirare. E dire che dovrei essere io quello sconvolto.
Preparo la moka e sistemo le tazzine e lo zucchero sul tavolino.
"Non ti offenderai se non ho piattini per le tazzine, vero?"
Scuote la testa. Ma non la alza. Perchè non mi guarda negli occhi. Mi sento in imbarazzo totale. Fino a poco prima non riuscivo a sollevare lo sguardo e adesso non desidero altro che mi guardi dritto in viso.
"Serena, io..."
"Ti fai del male da solo, Samuel?"
"No."
"Ok. Ti credo allora."
"E non vuoi sapere come mai ho quel taglio?"
"Se non me lo dici avrai le tue ragioni."
"E allora perchè sei qui?"
"Non lo so."
"Non lo sai."
"tu sapevi perchè avevi voglia di conoscermi l'altro giorno, mentre leggevo sotto quell'albero?"
"No"
"Bene."
Siamo rimasti in silenzio per dieci minuti credo. Lo so perchè più o meno è il tempo che, con la fiamma del fornello bassa, ci impiega il caffè a venir su. Sento il rumore della moka. Sento l'odore del caffè. Si mescola all'odore del silenzio che cìè nella stanza. Sostituisce l'odore della sera. Ma non copre il suo odore.
Odore di buono. Odore di donna. Odore di desiderio. Odore di imbarazzo.
"Samuel."
"Si?"
"Il caffè... credo sia pronto."
Mi alzo di scatto dalla sedia e vado in cucina a prender la moka.
Lei mi segue e mi cinge le braccia intorno al busto, da dietro. Appoggia la testa sulle mie spalle e si stringe al mio corpo. Sento il suo seno premere sulla mia schiena. Sento il suo respiro. Sento il suo cuore che batte all'impazzata. E sento le sue lacrime che bagnano la camicia.
"Serena..."
"Scusami, avevo voglia di abbracciarti."
"E perchè stai piangendo?"
"Perchè avevo voglia di farlo. Perchè sento il tuo dolore. Perchè sento dietro quel muro stai sbattendo forte i pugni in attesa di qualcuno che possa sentire le tue urla. Perchè ho bisogno di sentire le tue urla. Mi sento simile a te. Mi sento dannatamente simile a te."
Non so cosa rispondere, non ho la più pallida idea di cosa dirle.
Di nuovo dolore al petto.
"Lascia che prenda il caffè." le dico, sciogliendomi dalla sua presa. Il dolore al petto è lancinante.
"Scusami Samuel"
"No, tranquilla. Hai detto quello che pensavi, va bene così. Ma io..."
"Lo so, non devi giustificarti. Permettimi però di essere qui adesso."
"Va bene. Ti permetto di essere qui adesso."
Verso il caffè nelle tazzine e lo beviamo in silenzio, senza incrociare gli sguardi neppure una volta.
Mezzanotte.
Forse è il caso che la riaccompagni a casa.
"Posso restare a dormire qui, stanotte?"
"Cosa?"
"Voglio starti accanto stanotte. Posso restare a dormire qui?"
Guardo Hikari in cerca di un suo segno, qualcosa che mi faccia capire come devo comportarmi in questo momento. Non so cosa fare. Non so cosa dire. L'unica cosa che mi viene naturale fare, stranamente, è sorriderle.
E' strano dormire con lei accanto. O meglio, è strano stare in un letto con una donna accanto che non sia Zoe. Odori diversi. Movimenti diversi. Forme diverse. Diverso anche il respiro e il pulsare del cuore nell'aria. Non riesco a chiudere occhio. E non riesco neppure agirarmi dall'altro lato per vedere se lei stia dormendo. Se non stesse dormendo? Se avesse gli occhi spalancati a fissare la mia schiena?
Diamine, ho anche un caldo terribile con questi pantaloncini e questa maglietta. Sono abituato a dormire in mutande ma non mi sembrava il caso di farlo anche stanotte.
Che faccio, mi giro?
"Posso chiederlo ora?" Ah, allora non sta dormendo. "Quella ferita... quando l'ho vista pensavo te la fossi procurata volutamente. Come i segni che hai sulle braccia. Perdonami, io ti credo quando dici che non sei tu a farteli, ma ci sono... ci sono e io non riesco a trovare una spiegazione plausibile e non so cosa pensare perchè mi fa male l'idea che tu possa farti del male ma allo stesso tempo ti capirei e..." una cascata di parole. Mi stai inondando Serena. Dammi respiro.
"Non li faccio io. Non mi crederesti se te lo dicessi."
"Tu prova. Ma non voglio saperlo perchè sono un'impicciona... voglio saperlo perchè vorrei sapere tutto di te. A cominciare da quei segni."
Prendo un respiro. Poi un altro. Poi un altro ancora. Il battito del mio cuore piano piano rallenta. Apro gli occhi e guardando il muro bianco davanti a me immagino di scrivere un nome in modo che lei possa vederlo senza che io debba dirle nulla. Prima la zeta. Affusolata, senza spezzare i tre tratti che la compongono, quasi fosse una esse. Poi la o. Un cerchio perfetto, ma più piccolo della zeta. Molto più piccolo. Poi la e. E allungo la sua punta. E disegno un ricciolino... e poi un altro... e poi un altro... chiudo gli occhi e pronuncio quel nome.
"Zoe... è stata lei." apro gli occhi e sul muro bianco vedo di nuovo il nome che ho appena immaginato di scrivervi su.
"No Samuel. Sei stato tu..." mi volto di scatto, facendo cadere il cuscino a terra e dando uno strattone al lenzuolo.
"Zoe."
"Sei stato tu, non accusare me." mi sorride dolcemente.
"Ma sei stata tu, non io... io non..."
"Tu hai voluto che tornassimo a casa presto e tu hai voluto far l'amore. Quindi prenditi le tue responsabilità." continua a sorridermi.
"Ma di cosa stai parlando, Zoe? Io mi riferisco a questo taglio che..." mi guardo il petto. Non c'è nulla. Assolutamente nulla.
"Mi riferisco al fatto che abbiamo lasciato il compleanno di Ivan prima del tempo solo perchè tu avevi voglia di fare l'amore con me. Di quale taglio stai parlando?"
Rido. Scoppio a ridere, non riesco a trattenermi in alcun modo.
"Cos'hai da ridere Samuel?"
"Nulla. Non so se sono felice o se sono semplicemente pazzo"
"Certo che sei pazzo. Sei pazzo di me." mi dice tirandomi verso di lei con uno strattone. Il mio volto finisce tra i suoi seni. Sento le saue mani che mi accarezzano la nuca. Poi scendono sulle spalle. delicate corrono sulla mia pelle, le sue dita calde. Inarca la schiena e mi sento sprofondare nel suo corpo.
Una musica inizia a risuonare nell'aria, e ho come la sensazione di non essere noi le sole due persone presenti nella stanza.
Scosto la testa e guardo verso la porta. Hikari ci sta fissando. Dietro di lei ci sono due bambini. Anche loro ci osservano ma la loro espressione è vuota, assente.
"Zoe... c'è qualcuno qui con noi."
"Lo so." continua a muovere lentamente il suo corpo e io mi sento sprofondare sempre di più dentro di lei. Il respiro. Inizia a mancarmi il respiro e quei due bambini continuano a fissarci. Uno di loro sono io. Uno di quei bambini sono io.
Con forza mi divincolo dalla sua presa. Salto giù dal letto e mi avvicino alla porta.
"Ciao." il me stesso bambino mi saluta.
"Ciao. Che ci fai qui?"
"Mi sono perduto. Non riesco a ritrovare la strada."
"E lei chi è?"
"Lei è una mia amichetta ma non ricordo come si chiama. Anche lei ha perso la strada."
Zoe mi chiama dal letto.
"Samuel, torna qui e mettiamoci a dormire. Ho sonno."
"Arrivo."
Parlare con questo bambino non è+ certamente più strano di tutto quello che mi è successo fino ad oggi. Eppure c'è qualcosa che mi sfugge in tutto questo. Cosa c'entra il me stesso bambino con Zoe? Perchè è nel sogno che ci riguarda? fino ad ora ho sognato ricordi di me e lei, perchè ora ci sono anche io?
"A tutto c'è una spiegazione più o meno logica, Samuel. Il segreto però sta nel non domandarsi perchè una cosa avviene..." il me stesso bambino mi parla come un adulto. E quello che ha appena detto è una delle frasi ricorrenti dell'ultimo libro che ho scritto.
"Samuel, vieni a letto dai! Lo sai che non iresco a dormire se tu non sei accanto a me sotto le coperte." insiste Zoe. Torno a letto, cercando di non distogliere lo sguardo dalla porta della stanza. Lei si avvicina a me e mi abbraccia.
"Buonanotte" mi sussurra, accarezzandomi il petto proprio dove poco prima c'era la cicatrice.
"Ti fa male?"
"Cosa?"
"Qui" dice, continuando ad accarezzare il petto.
"No Zoe, quando sono con te non mi fa male."
"Bene. Allora resta con me." Lo vorrei Zoe, vorrei solo poter dormire per sempre, non svegliarmi più. Lo vorrei davvero.
Chiudo gli occhi e il suo odore cambia. Il suo odore è diverso. Il suo abbraccio è diverso.
Apro gli occhi e mi trovo nudo, avvinghiato a Serena.
Ho un erezione in corso.
Un preservativo usato è riverso sul pavimento.
Cazzo.
Cazzo.
Cazzo.
Non è possibile. Ho fatto sesso con lei e non lo ricordo.
Mi volto dall'altra parte. Il muro non è più bianco.
Sul muro c'è una scritta. La stessa che ho scritto col pensiero. La stessa che c'era nel mio sogno.
"Oddio. Che qualcuno mi aiuti." penso, cercando di non svegliare Serena che dorme profondamente.
Il muro bianco alla luce del giorno mette ancora più in risalto quella scritta.
Zoe.

giovedì 11 marzo 2010

Il quarto sole - Rosso

Due occhi curiosi e affamati di vita. Guardare Hikari mentre passeggia felice per le strade della città mi rende davvero felice. E' una di quelle poche cose che riesce a farmi completamente dimenticare per un po' tutti i pensieri aridi e sterili che affollano la mia mente in questi ultimi mesi.
Postura fiera e goffa allo stesso tempo, zampette veloci e elegantemente ridicole, coda folta e scodinzolante. E due occhi enormi e profondi. La mia bimba è meravigliosa.
E stronza come poche.
Ogni gatto, ogni cane, ogni singolo piccione che osi tagliarle la strada diventa preda a cui abbaiare con forza e ostinazione. E i bambini. I bambini proprio non riesce a digerirli. Sarà il loro modo di fare invasivo e poco delicato, saranno le loro vocine stridule e a volte fastidiose... sarà che ultimamente la penso come lei.
E dire che ho sempre pensato di essere nato padre. Ho sempre desiderato avere dei figli, prima di quanto di solito un uomo possa desiderare legare la propria vita definitivamente ad un altro essere. Da quando Zoe mi ha lasciato è cambiato anche questo, anche se non so darne una motivazione precisa.
Arianna e Gabry dicono che secondo loro è un rigetto a tutti quelli che erano i miei desideri con Zoe... forse hanno ragione, forse no. Sono poche le cose di cui ho certezza, oramai.
Guardo l'orologio con la coda dell'occhio mentre cerco di non distogliere l'attenzione da Hikari che ha deciso di fare pipì proprio al centro della strada.
“Perchè devi scegliere sempre i posti più assurdi per liberarti? Bestia tonta... muoviti che siamo in ritardo” il suo sguardo colpevole, quando fa i bisogni, è una cosa che mi scioglie letteralmente il cuore.
In effetti siamo in ritardo di 5 minuti e io odio non essere puntuale, soprattutto se l'incontro in questione mi imbarazza già a priori.
Sono proprio stupido, non dovevo farmi convincere dai ragazzi a incontrare Serena. Non credo di essere pronto. Tra l'altro ho il terrore della reazione di Hikari all'incontro. E' gelosissima di me e quando non conosce qualcuno diventa una specie di demonio.
Carmen, la mia amica che è anche educatrice cinofila, dice che è così perchè soffre della sindrome dell'abbandono e per questo ha sviluppato un forte attaccamento nei miei confronti. Sarà... secondo me è solo perchè è femmina. E molto stronza.
Ma io l'amo da morire.
Oddio. Eccola lì. Seduta su quella panchina, con quell'aria assente e quel libro in mano, è proprio bella. E io mi sento ancora più stupido. Una come lei non potrebbe mai davvero interessarsi a uno come me. Adesso poi, dopo quello che ho passato. Ho smesso anche di curare il mio aspetto, oltre che il mio animo. Sono trasandato e sembro un barbone. E pensare che fino a qualche mese fa curavo ogni più piccolo dettaglio, dalla cintura alle mutande abbinate alla cravatta. Ma dove sono finito? Dov'è finita quella parte di me?
Ecco, mi ha visto. E Hikari ha visto lei. Dio ti prego fa che non abbai. Non abbaiare, non abbaiare. E tu non chiamarmi, aspetta che mi avvicini io,
“Ehi, stavo per perdere le speranze!” ecco, l'ha fatto, ha parlato per prima. Ma come, la bestia non dice nulla? Si limita a guardarla.
Porto le mani al petto senza rendermene conto. Una fitta. Sarà un dolore intercostale.
“Ciao Serena, scusami. Sai com'è, bisognini impellenti. E poi bisogna correre dietro ogni farfalla o mosca che passa.” mi avvicino lentamente e lascio a Hikari il tempo di capire che quella che ha davanti è una persona che conosco e di cui non deve avere paura. Anche se sembra eccessivamente tranquilla. Forse mi sono preoccupato inutilmente.
“E così lei è la bestiolina?!” No, non farlo. Si è gettata letteralmente addosso alla bestia stranamente calma. Eh?! Si sta facendo accarezzare senza problemi. Assurdo.
“Ma è dolcissima. Oh mio Dio è davvero bella” il suo sorriso è penetrante. Arrogante. Amabile. Un sorriso arrogante e amabile, che connubio insolitamente bello.
“Mi fa specie il suo comportamento, sai? Di solito con chi non conosce è aggressiva, inizialmente.”
“Beh, io sono l'eccezione che conferma la regola. Mi adora direi.” già, a vederla, la adora. Nemmeno con me Hikari ha avuto questo atteggiamento appena ci siamo conosciuti. Meglio così.
“Allora, dove vuoi andare?” le chiedo. Spero solo non voglia andare in n posto dove ci sia troppa gente, Hikari abbaierebbe tutto il tempo.
“Voglio fare il percorso che fate insieme di solito, non voglio deviare la vostra passeggiata.” ma perchè è così gentile con me? Mi spaventa quasi questo suo modo di fare.
“Ok, allora andiamo. Lasciamo che vada avanti la bestia, conosce la strada.” le porgo il guinzaglio “vuoi tenerlo tu?”
Dalla sua espressione sembra quasi che le abbia appena regalato un diamante. Le si sono illuminati gli occhi e tutto il volto di riflesso.
Prende la cima del guinzaglio con la mano destra e infila il braccio sinistro sotto il mio braccio.
Questo gesto mi lascia perplesso ma mi fa sorridere sotto i baffi e sospirare. Spero solo non se ne sia accorta, non vorrei pensasse che io la stia prendendo in giro.
Di nuovo la fitta al petto. Forse devo smettere di fumare.
“Ehi… la tua camicia!” esclama lei con gli occhi sgranati.
“Cos’ha? Non ti piace?” abbasso lo sguardo e non credo a quello che vedo. Una macchia rossa proprio al centro del petto. Sangue. Ma come diavolo…? La mia mentre ritorna alla sera prima e al sogno e alla festa delle streghe e al volto di Zoe e al risveglio. E al sangue.
Un dolore fortissimo mi costringe a piegarmi sulle ginocchia.
“Oddio. Cos’hai? Stai bene?” Serena si piega verso di me con uno scatto repentino e mi cinge le spalle.
“Si, si, tranquilla. Tutto ok. Mi sono solo spaventato per la macchia.” Hikari inizia a leccarmi il volto, preoccupata quanto Serena.
“Ma cos’è quella macchia? Sangue?” Leggo ansia nei suoi occhi.
“No, no. Ma che sangue. Deve essere il succo di frutta che ho bevuto prima al bar.” Ma sono idiota o cosa? Una bugia migliore non sapevo trovarla?
“Succo di frutta?” ripete lei incredula.
“Succo di frutta.” Le ripeto “Arancia rossa. Buonissimo, è il mio preferito” Mi rialzo e tiro fuori dalla borsa un fazzoletto di carta. Lo sistemo a mo’di bavaglino e sorrido a Serena.
“Ecco, così non si vede nulla. Anche se sono alquanto ridicolo.” Cerco di sdrammatizzare e fare l’idiota, magari la sua attenzione cadrà dal mio petto alla mia stupidaggine.
Lei sorride forzatamente e riprende a camminare. Io continuo a sentire male. Hikari continua a curiosare allegramente anche se ogni tanto si volta verso di me per vedere se sono ancora dietro di lei.

Silenziosamente siamo arrivati al parco e sempre silenziosamente abbiamo sciolto la bestia dalla sua “catena” per lasciarla correre felice. Non ci siamo scambiati neppure una parola dal momento in cui ha visto la macchia di sangue sulla mia camicia e io non me la sono sentita di intraprendere un qualsiasi discorso. Non so spiegarmene il motivo. E’ come quando, dopo un litigio con qualcuno, pur essendo io nella ragione non riesco a guardare l’altra persona negli occhi. Per imbarazzo, per orgoglio, per timidezza. Non saprei spiegare. Forse non mi piaccio quando litigo e discuto perché mi rendo conto di non essere molto in grado di controllare la rabbia e le parole in certi ambiti. O forse è semplicemente perché so di aver ferito, seppur in maniera marginale e involontaria, la persona con cui ho discusso. Fatto sta che la sensazione che provo in questo momento è proprio uguale al disagio post litigio.
Seduti a cavalcioni di una panchina non riusciamo a fare altro che fissare il silenzio negli occhi senza riuscire a buttarlo giù dal nostro incontro.
Lei giocherella con un rametto colto da terra e ogni tanto butta lo sguardo sulle mie mani che giocherellano con il guinzaglio della bimba.
“Perché non mi hai detto la verità prima?” per fortuna interrompe lei questo silenzio insopportabile, anche se lo fa con una domanda non propriamente semplice.
“Ma ti ho detto la verità. Cosa dovrei nasconderti?” non riesco a guardarla negli occhi. E’ troppo bella. E’ troppo dolce. E’ troppo incuriosita dal mio petto. “Piuttosto, cambiamo argomento. Parlami un po’ di te.” Ti prego, cambia argomento e smetti di tenermi il broncio.
“Parlarti di me. Cosa vuoi sapere, di me? Sono figlia unica, i miei genitori vivono fuori città e io sono qui per studio. Studio Discipline dello spettacolo e adoro il teatro. Mi piacciono le lunghe passeggiate all’aperto, adoro prendere il sole in una giornata di pioggia…” la sua ultima affermazione mi fa sorridere. Il sole in un giorno di pioggia.
“Perdonami, non volevo deriderti. E’ che non ha molto senso quello che dici… in merito al sole intendo.” Meglio scusarmi, altrimenti penserà che sono un grandissimo cafone.
Hikari torna come un razzo verso di noi e ci salta addosso prima di riprendere la sua corsa spericolata.
“E dire che mi sarei aspettata che uno scrittore potesse capire il senso di quello che ho detto.” Mi sfida sorridendo.
In effetti è una affermazione molto poetica, anche se non riesco comunque a trovare il senso della frase.
“Vedi… tutte le mattine mi alzo, apro la finestra e guardo il cielo. E guardo il cielo sorridendo. Anche se piove. E ripeto a me stessa: oggi è una bellissima giornata. E se sono in strada mi soffermo per lunghi attimi sotto la pioggia scrosciante e prendo il sole. Perché anche se piove, c’è. E’ lì, sopra le nuvole. E sopra quelle nuvole grigie, oscure, cariche di lacrime è davvero una bellissima giornata. Quindi cerco di catturare per me quel sole, noncurante del muro grigio che si frappone tra lui e me. E mi sembra di sentirlo sulla pelle, insieme alle gocce di pioggia. Anzi, sembra quasi che quelle gocce di pioggia siano cariche dei raggi del sole. Capisci ora quello che intendo?” mi guarda con un sorriso splendente. E mi sento completamente travolto dalle sue parole. Non avevo mai pensato prima a questa cosa. Non mi ero mai soffermato prima a pensare che in effetti, per quanto grigia possa essere una giornata, il sole è sempre lì. Dietro la coltre di nubi. Dietro la nebbia. Dietro i problemi. Dietro i pensieri negativi. Il sole è sempre lì.
“E’ davvero molto bello quello che dici. Ti ringrazio, mi hai fatto riflettere.” Le sussurro a bassa voce, quasi mi vergognassi di quello che sto dicendo.
“Sono contenta.” Si sporge verso di me e posa le sue labbra sulle mie, con delicatezza. Sento il suo bacio. Una piuma sulla pelle. Si scosta di poco, quel tanto che basta per sentire il suo respiro sul mio viso.
“Scusami, desideravo farlo da quando mi hai abbordata l’altro giorno.” Sussurra.
“No… figurati. Mi hai solo colto alla sprovvista.” Oddio, mi ha baciato. Volto di poco lo sguardo per cercare Hikari con la coda dell’occhio. E’ lì, immobile e ci fissa come fossimo due prede da studiare.
Dolore. Intenso dolore. Lacerante dolore. E questa volta parte dal petto per espandersi in tutto il corpo. Diamine. Non posso fare a meno di piegarmi di nuovo.
“Samuel!” cado dalla panchina e sento le zampe di Hikari correre verso di me. Cerco di rialzarmi di scatto. Barcollo un po’. Sono di nuovo in piedi. Lei strappa via il fazzoletto che ho ben bene sistemato sulla camicia. La macchia si è allargata.
“Samuel…” dice a bassa voce. “Che cosa…?” non riesce a terminare la frase. E anche se so cosa vuole sapere sto zitto. Cosa dovrei risponderle? Sai Serena, faccio dei sogni strani in cui la mia ex ha deciso di procurarmi ferite che per qualche strano motivo mi ritrovo anche dopo che mi sono svegliato? No, sarebbe assurda come cosa.
“Perché lo fai, Samuel?” mi fissa impietrita e vedo due lacrime solcarle il volto.
Perché lo faccio? Faccio cosa? Guardo di nuovo la camicia e poi guardo lei. E di nuovo la camicia e poi di nuovo lei. Cosa devo dirle? ODDIO. Forse crede che io mi faccia del male volontariamente.
“No, Serena. Non è come credi.” Cerco una plausibile spiegazione a quello che sta succedendo. Ma che spiegazione plausibile potrei mai darle? Cazzo, la mia camicia è inzuppata di sangue e io non riesco a fermarlo in nessun modo. Potrei dirle qualcosa di blasfemo, tipo che ho le stigmate. Dubito crederebbe.
“Samuel…” cazzo, smettila di ripetere il mio nome con quell’espressione e quel tono di voce. Non riesco a ragionare. Devo andare. Devo andare via.
“Hikari, vieni qui.” Rimetto il guinzaglio alla bimba e mi avvio verso l’uscita del parco. Alzo la mano senza voltarmi indietro, in segno di saluto.
L’ho spaventata, ovvio. Cosa vuoi che faccia adesso? Scapperà via e io non la rivedrò mai più. Meglio così. Un problema e un pensiero in meno. Più mi allontano e più il dolore diminuisce.
“Ho capito Zoe, ho capito.” Ripeto a voce bassa mentre continuo a camminare.
Sono segnato. E sono legato. E ho paura che non sarò mai in grado di strappare questo velo sottile che mi tiene ancorato al passato. Questo velo che mi tiene ancorato a Zoe. Scosto la camicia dal petto e guardo la ferita. E’ gonfia. E’ sporca di sangue. Il mio petto è tutto rosso. La mia camicia è tutta rossa.
Ovviamente, senza fazzoletto, la gente non fa che fissarmi. Corriamo Hikari. Corriamo più veloce che possiamo e torniamocene a casa.
Ho voglia di piangere.

...nulla è inutile. Ogni essere ha la propria ragione d'esistere...

...nulla è inutile. Ogni essere ha la propria ragione d'esistere...

...e il riflesso nello specchio sarà ciò che l'individuo desidera...

...e il riflesso nello specchio sarà ciò che l'individuo desidera...

... non si può ignorare l'inevitabilità degli eventi...

... non si può ignorare l'inevitabilità degli eventi...