venerdì 28 novembre 2008

Il quinto frammento - Sguardi che angosciano e il desiderio dell'incontro

Quando tornai a casa, quella mattina, mia madre non mi rivolse la parola neppure una volta, come se il mio stato d'animo non la sfiorasse minimamente. Mio padre, invece, non fece che fissarmi tutto il tempo, con sguardo carico di tristezza mista a compassione. Sapevo che mi capiva, ma sapevo anche che lui non poteva fare assolutamente nulla per cambiare la situazione. Amava mia madre, ma ciò che sapevo con certezza assoluta era che oltre ad amarla ne era succube e dipendente. Non potevo biasimarlo. Non potevo avercela con lui. Non conoscevo approfonditamente ciò che avevano vissuto entrambi in passato e non pretendevo di capire le motivazioni che li avevano spinti ad essere ciò che erano.

Era la mia famiglia, dovevo accettarla così com'era. Ma prima o poi, mi ripetevo in continuazione, avrei affrontato mia madre a viso duro e le avrei detto tutto ciò che pensavo. Ma quello non era ancora il momento giusto, non ero ancora abbastanza forte e matura da poterlo fare.

I giorni trascorsero velocemente, dal mio incontro con Micael nella piazza del paese,e nella mia mente continuavano a riaffiorare le immagini di quella mattina. La sua elegante camminata tra i piccioni che non si scomodarono a volare via al suo passaggio, le sue dita che raccoglievano quella lacrima rimasta sul mio viso, i suoi profondissimi occhi che mi fissavano, la colomba bianca appollaiata sul rosone della chiesa che ci fissava impietrita.
C'era qualcosa in Micael che mi turbava al punto da togliermi il sonno, qualcosa che non riuscivo a spiegare in alcun modo. La cosa che però mi assillava più di tutte era il modo in cui era riuscito ad estrapolare dalla mia anima i pensieri più tristi e intimi su mia madre, con estrema semplicità. Nessuno prima di allora aveva saputo ascoltare le mie parole in quel modo tanto interessato quanto distaccato. Era come se il suo interessamento per me fosse spinto più dalla curiosità che da altro. Tra tutti i miei amici, per quanto pochi fossero, nessuno era mai stato in grado di mettermi nelle condizioni tali da aprire completamente il mio cuore; probabilmente questo era dovuto anche alla mia grande timidezza e riservatezza, ma il punto della questione non era affatto quello.

Un pomeriggio più tardi, mi recai al centro del paese a fare acquisti per la mia passione; mi ero accorta di avere terminato alcni colori, quali il blu e il rosso, essenziali per poter creare il mio colore preferito. Nessuno dei quadri che dipingevo poteva dirsi terminato se almeno un piccolo dettaglio non fosse stato colorato di viola.
Tutti i negozi più forniti si trovavano intorno alla piccola piazza antestante la chiesetta, essendo quello il luogo del paese più frequentato in assoluto; tra loro vi era anche il negozietto di belle arti del signor Pablo, un simpatico omino fuggito dalla Spagna e istallatosi definitivamente presso di noi. Per una donna, mi disse una volta, aveva lasciato la Spagna, ma non capii mai se da quella donna fuggiva o se la aveva seguita fin dove si trovava ora. Avrei sempre voluto chiederglielo, ma non ero una persona talmente tanto sfacciata da poterlo fare. In fondo, lui era soltanto l'omino spagnolo che mi vendeva i colori e i pennelli.
La piazza era gremita, come sempre, di bambini che urlavano e si rincorrevano mentre le loro madri passavano il tempo tra una drogheria e un pettegolezzo. Prima di entrare nel negozio, mentre mi accingevo ad aprire la porta d'entrata, qualcosa mi spinse a voltarmi verso la chiesa e istintivamente alzai gli occhi verso il rosone. La vidi. Quella colomba bianca era lì, come quella mattina, e mi stava fissando. La cosa iniziò ad incutermi un certo timore e presa da questo entrai velocemente nel negozio, continuando a guardarmi indietro come per accertarmi che lo strano, candido uccello non mi seguisse.
"Buongiorno Sophia" esclamò il signor Pablo.
"Oh, buongiorno a lei... scusi la foga con cui sono entrata." risposi. Effettivamente ero entrata nel negozio con la grazia di un elefante.
"Non devi scusarti. Dimmi, cosa ti porta qui oggi?" chiese gentilmente.
"Io... avevo bisogno di alcune cose." balbettai. Non era l'imbarazzo a impedirmi di parlare ma l'ansia che quella dannata colomba mi stava mettendo addosso.
"Vediamo... cosa ti serve? aspetta aspetta, provo ad indovinare. Hai bisogno del ciano e del rosso carminio, vero?" domandò sogghignando.
"Sono così prevedibile?" risposi sorridendo cortesemente.
"No, assolutmente. Sono io che posso leggere nel pensiero!" rispose ridendo, mentre si recava nel retrobottega a prendere ciò che volevo.
In attesa del suo ritorno, mi avvicinai alla vetrina del negozio e buttai lo sguardo al rosone, per controllare. La colomba era sparita e la cosa mi rassicurò non poco.
Non era l'uccello in sè ad angosciarmi ma il modo in cui mi fissava. Quei suoi piccoli occhi immobili e fissi su di me. In fondo ero perfettamente in grado di capire che un uccello non avrebbe mai potuto farmi del male.
Poco dopo, il signor Pablo tornò con i miei colori e un pennello, che io non gi avevo chiesto.
"Questo è un piccolo omaggio per te, Sophia. Sentirai che piacere srà utilizzarlo. Le sue setole sono morbidissime ma tenaci." Mi piaceva ascoltarlo parlare. Non aveva perduto affatto il suo accento spagnolo, e adoravo quella cadenza.
"La ringrazio, signor Pablo. E' dvvero molto gentile." ringraziai con gentilezza e riconoscenza per il dono che mi aveva fatto e dopo aver pagato mi apprestai ad uscire per tornare a casa.
Una volta fuori dal negozio mi incamminai con passo lento, con il mio sacchetto tra le mani. Giravo il mio sguardo continuamente, prima a destra poi a sinistra; non stavo controllando però se a colomba fosse ancora lì a fissarmi. No, il mio pensiero in quel momento era diventato un altro. Speravo di vederlo. Pregavo di incontrarlo di nuovo. Non ne conoscevo il motivo, sapevo solo che provavo un irrefrenabile desiderio di parlare ancora un po' con lui. Micael. Il suo nome era diventato il sottofondo musicale della mia anima e la cosa non mi dispiaceva. Tutt'altro.
Oramai ero quasi arrivata a casa e di lui, neanche l'ombra. Purtroppo capii che dovevo rassegnarmi all'idea di non incontrarlo.
Quando stavo per accingermi ad infilare la chiave di casa nella serratura una folata di vento fortissimo mi scompose i capelli e i vestiti. Non sapevo perchè, ma sentii di dovermi voltare. Non lo feci subito, però. Attesi quel tanto che bastava per udire una voce familiare e desiderata alle mie spalle.
"Perdonami se ti ho fatta aspettare, Sophia."
Lui era lì, dietro di me.
Mentre mi voltavo, lasciai che una parte dei miei capelli cadesse davanti al mio viso, quasi per schermare il mio imbarazzo e la mia gioia dal suo sguardo.
"Perchè ti scusi? Non avevamo un appuntamento." risposi.
"Non mi stavi aspettando?" chiese garbatamente, con un piccolo ghigno abbozzato sul volto.
Dopo un attimo di esitazione risposi "si", malcelando tutto l'imbarazzo che stavo provando per quella risposta.
"Non sentirti imbarazzata, Sophia. Anche io desideravo incontrarti di nuovo."
La sua risposta mi riempì il cuore di gioia. Anche lui desiderava incontrarmi, non ero la sola a volerlo.
"Come facevi a sapere... no, nulla, lascia perdere." dissi.
"A cosa stai pensando, Sophia?"
"Beh... ecco... quando sei arrivato, tu hai detto perdonami se ti ho fatta aspettare. Come facevi a sapere che ti stavo aspettando? Come facevi a sapere che speravo di incontrarti?"
Si avvicinò lentamente a me e accarezzò i miei capelli, amorevolmente, delicatamente. Sentii dei brividi fortissimi percorrermi tutta la schiena. Inclinai leggermente la testa, quel tanto che bastava per sfiorare con la guancia la sua mano.
"Importa?" mi chiese, socchidendo gli occhi e abbozzando un sorriso.
"No, non importa." risposi arrendevolmente. In fondo era vero. Cosa importava? Lui era lì, davanti a me, e mi stava accarezzando i capelli. Avrei fermato il tempo se avessi potuto farlo. Sarei rimasta immobile a lasciare che lui mi accarezzasse i capelli in eterno. Un leggero soffio di vento portò al mio naso il suo profumo; aveva l'odore di erba bagnata dalla rugiada. Quel profumo non mi era mai sembrato tanto bello come allora.
"Torni subito dentro o vieni a fare una passeggiata con me?" mi chiese.
Purtroppo il tempo era volato ed oramai era sera inoltrata. Non potevo attardarmi ancora fuori, i miei genitori si sarebbero adirati. Era usanza, in famiglia, cenare tutti insieme e non potevo contravvenire alla regola.
"Credimi, vorrei tanto. Ma non posso farlo. I miei genitori mi aspettano." dissi.
"Va bene. Ci sarà l'occasione per farlo." sorrise. Avvicinò le sue labbra alla mia fronte e vi posò su un bacio delicatissimo. Quel gesto, tipico di mio padre che mi augurava la buonanotte, assunse tutt'altro valore fatto da lui.
Si allontanò di qualche passo, senza darmi le spalle e fece un cenno di resa con le spalle.
"Ciao, Micael." dissi.
Lui attese qualche istante e disse quello che il mio cuore voleva sentirsi dire in quel momento.
"Io sono innamorato, Sophia. Non so come hai fatto, non ne conosco la ragione. Ma sono innamorato di te." il suo sorriso mi parve ancora più grande e bello del solito.
"Lo stesso vale per me, Micael." aggiunsi io. L'imbarazzo mi fece voltare di scatto e infilai la chiave nella serratura. Prima di aprire la porta sentii nuovamente una forte folata di vento, dietro di me. Mi voltai. Lui non c'era più.
Varcai la soglia di casa e socchiusi la porta piano, scrutando il vialetto con attenzione per cercare di scorgere nuovamente la sua immagine. Lui era innamorato di me.
Io mi ero innamorata di lui.
La nostra storia, quella che avrebbe portato entrambi in luoghi sconosciuti e inaspettati, quella sera aveva avuto inizio.



venerdì 21 novembre 2008

Il quarto frammento - Con gli occhi fissi sull'anima

I suoi occhi erano fissi su di me e sembravano sorridere dolcemente. Non parlava, non si muoveva, sembrava non respirare neppure. Mi fissava e basta, ma la cosa non mi infastidiva, tutt'altro. Sarei rimasta sospesa in quell'attimo con lui per l'eternità.
I rintocchi della campana della chiesa spezzarono bruscamente quel momento e la quiete di quei piccioni e quelle colombe che, spaventati, si levarono in volo tutti insieme in un rumorosissimo frullio d'ali. Soltanto una colomba, bianchissima, rimase immobile al centro della piazza, quasi volesse approfittare del momento di solitudine per accaparrarsi più briciole possibile. Ma invece di farlo, iniziò a fissarci con quei suoi piccoli occhietti neri.
Micael fissava me, la colomba fissava entrambi, in un scena che aveva assunto dei connotati quasi comici. Sorrisi.
Però, più passava il tempo, più iniziavo a provare una frustrante sensazione d'angoscia. Entrambi quegli sguardi iniziavano a farsi pesanti, sul mio corpo.
Mi levai in piedi e cercai di dire qualcosa per togliermi da quella stranissima situazione.
"Micael, c'è una colombella che ci stà fissando."
"Lasciala perdere, continua a guardar me." rispose lui, senza accennare nessuna espressione all'infuori di quella che aveva assunto da quando aveva iniziato a guardarmi.
"Ma... mi sento un po' in imbarazzo." dissi. La colomba iniziò a saltellare verso di noi e il suo incedere si faceva sempre più svelto. Micael si voltò è fece cenno di fermarsi con la mano al piccolo uccello bianco.
La colomba si fermò all'istante e lì rimase a fissarlo negli occhi. Sembrava quasi stessero comunicando in qualche modo e vederli entrambi così intenti in quel fare mi affascinava.
Micael si voltò di nuovo verso di me e mi sorrise. La colomba spiegò le ali e si alzò in volo per poi sparire dietro la chiesa.
"Beh, era affascinata dagli esseri umani, direi." dissi scostando i miei occhi dalla morsa dei suoi.
"Diciamo di si." rispose. "Perchè mai distogli lo sguardo, Sophia? Hai paura di me?"
"No, assolutamente. Dovrei averne?" chiesi.
"Non lo so. Io non sono te."
"E tu? Avresti paura di te stesso?"
"A volte si, altre volte no."
"Beh, come tutti gli esseri umani, direi."
"Perchè, Sophia? Tu hai paura di te stessa?" mi chiese dolcemente, con fare quasi infantile. Sembrava un bimbo curioso che pone milioni di domande ai genitori, anche se le domande in questione erano leggermente più serie di quelle di qualcuno che non sa ancora niente della vita. Eppure il modo di porle era identico. Sembrava gli interessasse conoscere qualcosa di cui non possedeva memoria alcuna.
"A volte si, altre volte no" risposi sorridendo. Tornai a sedere sulla panchina dalla quale mi ero alzata e lui mi seguì. Nel sedersi posò la sua mano sulla mia e sentii nuovamente quella fortissima sensazione di benessere che avevo provato la prima volta che mi aveva toccata.
"Perchè a volte hai paura di te stessa, Sophia?" incalzò.
"Più che provare paura per me stessa, la provo per le sensazioni che a volte mi rendo conto di vivere e sentire." le parole iniziarono ad uscire da sole dalla mia bocca, non riuscivo a porvi freno.
"Provi sensazioni sbagliate?" continuò a chiedere.
"Si."
"E quali sono queste sensazioni che non dovresti provare?"
"Odio, rabbia, frustrazione." continuavo a rispondere alle sue domande senza rendermene conto.
"Ma queste sono emozioni umane. E' normale provarle, Sophia."
"Non è normale se l'oggetto di queste è colei che ti ha dato la vita." iniziai a piangere come una bambina. Tutto ciò che avevo accumulato in quelle poche ore del mattino stava fuoriuscendo dal mio corpo, sotto forma di parole e lacrime. E anche se il tutto avveniva senza che io lo volessi non riuscivo a meravigliarmene.
"Tu non ne hai colpa, Sophia. La tua è una reazione e come tale non è possibile biasimarla o condannarla. Cosa vorresti da lei?" mi chiese.
"Io... io vorrei solo essere amata."
"E credi che lei non ti ami?"
"Non lo credo, ne sono certa."
"Chi ti dà questa certezza? Puoi avere una certezza su tante cose. Sull'immensità del cielo, sulla freschezza della pioggia che scroscia sul prato, sulla profondità dell'oceano o sul cinguettio di un uccello. Ma sui sentimenti altrui, Sophia, non puoi permetterti di avere certezza, perchè questa non la possiede nemmeno chi li prova, quei sentimenti."
"Stai dicendo che lei non mi odia?"
"Sto dicendo soltanto che non puoi avere la presunzione di scovare nel baule del cuore altrui sentimenti e sensazioni. L'intensità di queste, la loro natura, la loro forza la conosce soltanto il legittimo proprietario." rispose pacatamente.
Aveva ragione, ma non riuscivo ad accettarlo.
"Proprietrio. Ne parli come se fossero delle cose tangibili."
"Perchè lo sono. Quelle che stanno scendendo dai tuoi occhi, adesso, cosa sono?"
"Lacrime."
"Non sono solo lacrime. In questo momento sono la forma tangibile del tuo dolore." rispose. E sorrise. Quel sorriso mi sciolse il cuore più delle parole che mi aveva rivolto.
Guardai la luce dei primi raggi del sole illuminare i suoi bellissimi capelli. Notai i riflessi argentati che questi avvano e me ne innamorai, più di quanto non fossi già innamorata di quel misterioso individuo.
"Toglimi una curiosità. Cosa ci fai in un posto simile all'alba?"
"Sono qui per questo." rispose, lasciando che una lacrima rimasta sul mio viso scivolasse sulle sue dita. La portò vicino le labbra e la leccò delicatamente.
La sua risposta non mi stupì, ma il suo gesto si. La dolcezza con cui lasciò che una frammentaria parte del mio essere si posasse sulle sue dita e poi sulle sue labbra mi avvolse il cuore e la mente.
"Il quadro. Quando lo terminerai?" mi chiese.
"Presto." risposi di getto.
"Bene. Non vedo l'ora di vederlo."
Il primo sole del mattino aveva portato con sè le prime anziane signore che iniziarono ad affollare la piazzetta in attesa dell'inizio della messa. Alzando lo sguardo verso il rosone della chiesa notaai ancora quella bianca e strana colomba che continuava a fissarci imperterrita e imperscrutabile.
Anche Micael se ne accorse e subito dopo si congedò con garbo.
"Io devo andare, Sophia."
"Anche io devo tornare a casa. Spero... no, nulla." non riuscii a terminare la frase.
"Anche io spero di rivederti presto." disse lui, incamminandosi verso il vialetto che conduceva dietro la chiesa.
Attesi che la sua sagoma sparisse dietro l'angolo per incamminarmi a mia volta. Alzai nuovamente lo sguardo verso il rosone e notai che anche la colomba era andata via.
Mentre avanzavo verso la strada principale, una forte raffica di vento si alzò, scuotendo tutto ciò che c'era intorno, il mio intero essere compreso.

martedì 4 novembre 2008

Il terzo frammento - Il respiro che purifica il cuore da parole che feriscono l'anima

Quella notte non riuscii a chiudere occhio. I pochi attimi vissuti con Micael tornavano a turbare la mia mente ogni qual volta chiudessi gli occhi. Continuai tutta la notte ad annusare la mia mano, quella che lui mi aveva stretto, con la convinzione che vi fosse rimasto impresso il suo odore, qualcosa di lui, magari quella strana piuma tatuata.
Trascorsi quelle interminabili ore di veglia forzata ad ascoltare il battito del mio cuore e il fluire del mio respiro nell'aria, permettendo loro di cullare l'immagine che i miei occhi continuavano a proiettare sulle pareti buie della stanza.
La sua voce continuava a rindondare nelle mie orecchie, senza darmi tregua, senza lasciarmi possibilità di scampo alcuno; ma la cosa non mi irritava, tutt'altro.
Mi voltai più volte a guardare la sveglia posta sul mio comodino, fino a che non mi accorsi che il mattino era oramai giunto e io avevo trascorso tutta la notte senza dormire neanche per un istante.
Mi levai dal letto, per nulla assonnata, e mi recai in bagno a darmi una sistemata; dovevo necessariamente rendermi il più possibile presentabile. Mia madre si sarebbe accorta senza difficoltà che avevo passato la notte in bianco e da lì sarebbe partita la predica che sarebbe sicuramente sfociata in un brusco litigio.
Il mio risentimento nei suoi confronti non doveva essere alimentato in alcun modo, quindi dovevo necessariamente evitare qualsiasi tipo di discussione con lei. Il suo austero modo di fare, la sua intransigenza, il suo denigrante atteggiamento nei confronti di mio padre avevano avuto il solo merito di mostrarmi il tipo di persona che io non sarei mai dovuta diventare.
Scesi le scale in silenzio, per paura di svegliare i membri della famiglia che erano ancora tra le braccia di Morfeo a quell'ora e mi diressi in cucina per preparar loro la colazione. Spremute d'arancia, pane tostato con marmellata e qualche frittella calda con le fragole e lo sciroppo d'acero. Stavo pensando a cosa avrebbero gradito di più quando entrai in cucina e vidi mia madre già intenta a fare ciò che avrei voluto fare io. La cosa mi irritò non poco ma cercai di non darglielo a vedere.
"Buon giorno mamma." dissi, avvicinandomi a lei.
"Già in piedi? Bene, stai imparando." fu la sua risposta.
"Si mamma, sto imparando." ritrassi la mano con cui stavo per toccarle la spalla e mi voltai nervosamente. Mai una parola carina nei miei confronti, mai un gesto materno. Mi stupivo di come un uomo dolce come mio padre avesse potuto sposare o amare una donna del genere. Inizialmente credevo che il mio fosse solo il classico astio adolescenziale nei confronti della figura materna, quel periodo di ribellione che tutti prima o poi passano nella propria esistenza. Ma quel periodo durava da lungo tempo; oramai avevo ventidue anni e mi rendevo conto di come la realtà fosse proprio quella che avevo sempre immaginato. Mia madre era una donna rigida, inflessibile e fredda come il ghiaccio. Non lasciava trasparire emozione alcuna, neppure nei confronti dell'uomo che aveva accanto e che a mio vedere rappresentava il sentimentalismo e il romanticismo fatto carne.
"Ti do' una mano a preparare la colazione?" chiesi. Conoscevo la risposta che mi avrebbe dato, ma non mi sarei aspettata ciò che aggiunse in seguito.
"No, grazie, faccio da sola." non si voltò neppure per rispondermi. La cosa mi irritava da morire. "E poi, cosa vuoi aiutare? Si tratta di cucinare, non di spennellare su una tela. Tu resta al tuo posto e io resto al mio. Chissà se troverai mai un uomo in grado di cucinare. Almeno lo farà lui al posto tuo."
La sua risposta mi ferì. Come al solito. Quella volta però notai ancora più astio nelle sue parole. Mi alzai e uscii dalla cucina senza dire nulla; cosa avrei potuto dirle? Mentre mi accingevo a salire le scale per tornare in camera mia incrociai mio padre che stava scendendo per la colazione.
"Buongiorno angelo mio." mi disse sorridendo. Scoppiai in lacrime sentendo la sua voce e le sue parole, che involontariamente misi a confronto con le parole appena udite da mia madre.
"Tesoro mio, cosa c'è?"
"Nulla papà, nulla." non avevo mai parlato a mio padre del modo in cui lei mi faceva sentire, delle parole che mi rivolgeva, dell'astio che percepivo nel suo sguardo. Ma lui lo sapeva. Ne era cosciente ma non poteva fare nulla.
Dinanzi a mia madre tutte le persone diventavano incapaci di reagire, quasi temendo il suo oscuro potere intimidatorio. Non mi stupivo che mai nessuno ci venisse a trovare. La colpa era sua.
"Vuoi andare a fare due passi?" mi chiese, sollevandomi il mento con la mano sinistra.
"Credo che andrò da sola. Tu vai pure a fare colazione. Grazie." risposi. Mi voltai e tornai al piano inferiore, prendendo la giacca e dirigendomi all'ingresso.
"Volevo preparare le fritelle." dissi a voce bassa.
"Mentre farò colazione, chiuderò gli occhi e immaginerò di mangiare quelle." mi disse sorridendo dolcemente. La sua voce e il suo modo di parlarmi avevano il potere di far tornare la pace dentro di me.
Il vialetto era completamente deserto e il suono dei miei passi risuonava nel silenzio del mattino. Cercavo di svuotare la mia mente e il mio cuore dalla tristezza che la donna che chiamavo mamma mi aveva causato, per l'ennesima volta. Immaginavo che l'aria che respiravo, una volta uscita dal mio corpo portasse via con se una piccola parte del mio dolore, un piccolo frammento di tristezza. Non mi resi conto di quanto avevo camminato fino a che non mi ritrovai dinanzi alla piccola chiesa del paese.
La piazzetta dinanzi ad essa era popolata di piccioni e colombe bianche che picchiettavano con foga il suolo in cerca di cibo. Cercando di non disturbarli mi avvicinai ad una panchina e sedetti in silenzio ad osservarli. Poco dopo mi accorsi di non essere sola. Prima ancora di alzare lo sguardo, verso la panchina dirimpetto la mia, sapevo già chi fosse l'altra presenza. Non so spiegare come, ma sentivo dentro di me la sua presenza.
"Buongiorno Sophia." mi disse, gettando del pane raffermo ai piccoli volatili intorno a lui.
"Che coincidenza, eh Micael?"
"Il caso non esiste, Sophia." rispose senza esitazione, quasi come se conoscesse ciò che avrei detto.
"Deduco che tu mi abbia seguita, quindi."
"Assolutamente no. Non ho bisogno di seguirti. Io sono sempre stato con te, dal momento in cui ci siamo conosciuti." si alzò e iniziò ad avanzare verso di me. La cosa che mi colpì particolarmente fu il fatto che, pur camminando tra di loro, i piccioni non si preoccuparono minimamente della sua presenza e continuarono a picchiettare il suolo senza spostarsi di un millimetro. Se mi fossi alzata io, quegli uccelli sarebbero volati via in un attimo.
Invece erano ancora lì e lui camminava in mezzo a loro come se fosse un piccione qualunque.
"Davvero? Ma io non ti ho visto." dissi appena me lo trovai a pochi centimetri.
"Ero qui." disse, toccando con il suo dito indice la mia fronte e poi, spostandosi in giù verso il petto "e qui". Si fermò sul cuore, senza toccare il mio corpo in quel punto, da vero gentiluomo.
"E io?" chiesi, iniziando a sentirmi vagamente in imbarazzo.
"Tu eri qui." disse coprendosi gli occhi con la punta delle dita.
La mattinata iniziata male iniziava a prendere una piega decisamente migliore.

...nulla è inutile. Ogni essere ha la propria ragione d'esistere...

...nulla è inutile. Ogni essere ha la propria ragione d'esistere...

...e il riflesso nello specchio sarà ciò che l'individuo desidera...

...e il riflesso nello specchio sarà ciò che l'individuo desidera...

... non si può ignorare l'inevitabilità degli eventi...

... non si può ignorare l'inevitabilità degli eventi...