mercoledì 31 dicembre 2008

Auguri di un felicissimo 2009

Chiedo umilmente scusa a tutti coloro che sono in attesa di un nuovo frammento della storia di Micael e Sophia.
Purtroppo, il mese di dicembre è stato per me carico di impegni improrogabili a cui ho dovuto necessariamente dare la priorità.
Dal mese di gennai, dopo le festività, a cadenza settimanale posterò un nuovo frammento della storia con regolarità.
Approfitto inoltre, tramite questo post, per augurare a tutti coloro che continuano a seguirmi con affetto un felicissimo 2009.
Nico

lunedì 1 dicembre 2008

Il sesto frammento - Un cuore privo di qualsiasi barriera

Quella sera, dopo cena, mi recai subito nella mia stanza per poter metabolizzare al meglio ciò che era accaduto qualche ora prima davanti l'ingresso di casa mia. Ovviamente, come mi aspettavo, mia madre non fece nessuna piega quando ripiegai il tovagliolo sul tavolo e mi alzai augurando loro la buonanotte. Mio padre, al contrario, mi fece un cenno con il capo per ricambiare e mi sorrise dolcemente. Da brava figlia, avrei dovuto aiutare mia madre a rassettare la sala e la cucina, ma ero consapevole che mi avrebbe solo fatta sentire d'intralcio, quindi non le proposi nemmeno il mio aiuto.
Una volta il camera, mi apprestai ad uscire sul balcone per assaporare l'aria fresca della notte e lo splendore della luna piena; quella sfera dalla luce tenue facilitava il flusso dei miei pensieri come nient'altro riusciva a fare. Mi appoggiai con i gomiti sulla ringhiera in ferro e posai il capo tra le braccia, lasciando che i miei capelli fossero liberi di agitarsi al leggero venticello che si era alzato.
Il mio cuore, dacchè ero rientrata in casa, non aveva rallentato affatto il suo battito, anzi, più ripensavo alle sue parole, al suo sguardo profondo e intenso, alla sua pelle d'alabastro, ai suoi capelli e alle sue sottilissime labbra rosse più il ritmo aumentava. Ad un certo punto dovetti accasciarmi a terra, con le spalle contro la ringhiera e cercare di controllare il respiro, per potermi riprendere un minimo. Quel tanto che bastava per non svenire.
Possibile che quell'uomo mi facesse quell'effetto tanto singolare? Bello era bello, anche se il termine bello nel suo caso era estremamente riduttivo; aveva qualcosa di angelico, con quei lineamenti delicati, quella voce profonda e suadente, quella strana aura di quiete che gli aleggiava intorno. Ma non ero mai stata una ragazza così superficiale da basare tutto sull'aspetto esteriore, avevo sempre preferito approfondire la conoscenza con le persone, prima di potermi ritenere interessata.
Innamorata poi, proprio mai.
Innamorata. Quella parola mi sconvolgeva, anche perchè non mi ero mai, e dico mai, innamorata di qualcuno pur avendo io a quell'epoca già vent'anni.
Trascorsero diversi minuti prima che l'aria iniziasse a raffreddare il mio essere e quando ciò accadde non potei fare altro che levare lo sguardo al cielo per salutare la luna e rientrare nella mia calda e accogliente stanza.
Quella notte, fortunatamente, riuscii a dormire tranquillamente; non lo sognai. Ma pensai a lui ininterrottamente, anche mentre ero sopita. Ne ero certa.

Ogni anno, nel mio piccolo paese natale, si festeggiava l'arrivo della primavera. Quell'anno la festa era in ritardo, dato che la stagione dei fiori era arrivata con largo anticipo. Nella piazza della chiesa, vero centro nevralgico della vita paesana, venivano allestite bancarelle di ogni genere; dagli alimenti alle cianfrusaglie, dai gioielli ai giocattoli per bambini. Banchetti, a ridosso di camioncini, pieni di arachidi e nocciole tostate riempivano l'aria di un profumo che ben poco aveva a che fare con la primavera. Avevo sempre legato quei profumi all'inverno, profumi caldi e suadenti che intiepidiscono il cuore nelle fredde giornate di pioggia e neve. Eppure, anche quell'anno i camioncini erano lì, a ricordare a tutti che la festa della primavera aveva avuto inizio.Ricordo ancora che fin da bambina i miei genitori mi permettevano di andare, senza di loro, fino alla piazzetta per comperare bustoni interi di caramelle e mais tostato. Mio padre non amava molto i posti affollati e mia madre non mi avrebbe accompagnata per nessuna ragione al mondo, ma fortunatamente non mi avevano mai precluso la possibilità di gioire dei festeggiamenti.

La mia più cara amica di quel periodo, Marie, quella sera mi aspettava al solito posto per recarci insieme a fare un giro tra le bancarelle e chiaccherare in tutta tranquillità, magari sgranocchiando qualche snack o dello zucchero filato, che io adoravo. Il solito posto era il negozio del signor Pablo, quella sera aperto fino a tardi come tutte le altre attività presenti intorno la piazza.Quando la vidi mi sbracciai per farle notare la mia presenza tra la folla; mi sorrise e ricambiò iniziando a sbracciarsi a sua volta. Mi corse incontro e si gettò addosso a me, in cerca di un abbraccio.

"Scusa il ritardo, Marie, non mi ero resa conto dell'orario."

"Figurati, sono arrivata da pochissimo. Allora, cosa facciamo?" mi chiese, ansiosa di iniziare a girovagare tra le bancarelle.

"Beh, direi che la prima tappa obbligata è quella dello zucchero filato." risposi senza pensarci troppo.

"Hai vent'anni, non puoi più mangiare lo zucchero filato." rise lei.

"Ma taci, sei la prima a non veder l'ora di mangiarlo." la rimproverai scherzosamente.
"Si, è vero. Andiamo allora." disse, prendendomi la mano e trascinandomi al centro della muraglia umana che si era creata tra le bancarelle. Mi stupivo ogni anno di quanta gente era in grado di attrarre quella festa. Zucchero filato tra le mani, ci sedemmo su un muretto lontane dalla folla per poter chiaccherare senza dover urlare per poterci sentire.

"Allora, cos'hai Sophia?" mi chiese, strappando un bel pezzo di cotone zuccheroso dal bastoncino.
"Io, nulla, perchè?" risposi. Sapevo a cosa si riferiva, ma potevo anche sbagliarmi quindi attesi che la sua domanda fosse più esplicita.
"Allora, vediamo... non fai che sorridere, sei tutta mielosa, gli occhi a cuoricino e sei vestita come una bambolina di porcellana... c'è qualcuno di speciale che speri di incontrare, stasera?"
Mi resi conto di quanto la sua descrizione calzasse a pennello solo guardandomi riflessa in una vetrina accanto a noi.
"In realtà, si." fu la mia risposta, a cui seguì un suo spropositato urlo di gioia.
"Dimmi, dimmi... chi è? Lo conosco? E' carino? Quanti anni ha?" iniziò a tampinarmi di domande a raffica.
"Oddio, non so se lo conosci... io per prima non lo avevo mai visto qui intorno. Non è carino, è bellissimo... e onestamente non so quanti anni possa avere, non glielo ho ancora chiesto. PErò ne dimostra una trentina, non di più." dissi.
"Il nome, il nome. Voglio sapere il nome!" incalzò lei.
"Micael, si chiama Micael."
"Che bel nome." fu la sua risposta.
"Ha anche un tatuaggio, proprio qui, sulla mano. E lo mostra in tutta tranquillità. E' una piuma, bianca e argentata, ed è davvero bella." mentre parlavo, mi resi conto che l'immagine di Micael era impressa nei miei occhi come poche altre cose al mondo.
Continuò per tutta la sera a farmi domande su di lui, fino a che non mi resi conto di non essere in grado di rispondere a tutte. Da dove veniva? Qual'era il suo cognome? Dove viveva? Qual'era il suo lavoro?
Mi ero innamorata di un uomo di cui conoscevo solo il nome e l'aspetto. E il modo in cui era capace di farmi sentire in sua presenza; quando ero con lui mi sentivo serena, la tranquillità e la pacatezza entravano nelle fibre del mio corpo per prenderne pieno possesso. Ma allo stesso tempo mi sentivo indifesa, privata di qualsiasi barriera che potesse proteggere il mio cuore dalle intrusioni esterne.
"Ehi, Sopia. Ci sei?" mi chiese Marie, ridestandomi dal torpore in cui i miei pensieri mi avevano trascinata.
"Si, scusa. Pensavo." risposi, addentando lo zucchero filato.
"Beh, allora il tuo pensiero è una buona calamita."
"In che senso?" non capivo cosa stesse dicendo.
"Beh, ci sono due tizi dall'altro lato della strada che ci stanno fissando. E non so perchè, ma credo che uno dei due sia il tuo Micael." nel momento stesso in cui pronunciò il suo nome il mio cuore iniziò a palpitare senza sosta, consapevole che da lì a poco lo avrei rivisto. Cercai di voltarmi il più lentamente possibile, sperando che lui non si accorgesse che sapevo della sua presenza. Era davvero lui. E avanzava lentamente verso di noi, facendo slalom tra la folla con grazia ed eleganza.
Con lui c'era un altro uomo, altrettanto elegante e aggraziato. E altrettanto bello. Si somigliavano molto, pur essendo completamente diversi; non sapevo spiegarmi perchè, ma vendendoli camminare l'uno accanto all'altro mi sembravano la stessa persona. Appena mi sorrise, smisi di pensare all'uomo in sua compagnia.
"Buonasera, signorine." disse, rivolgendo un sorriso anche a Marie.
Lei si limitò a sorridere a sua volta, io non riuscii a fare neppure quello. Ero come impietrita.
"Sophia, lui è un mio caro amico. Si chiama Gabriel." mi disse dolcemente. Il modo in cui pronunciò quel nome mi sciolse letteralmente il cuore. Non aveva detto un semplice nome, aveva lasciato che la sua voce diventasse melodia mentre lo faceva.
"Piacere Gabriel. Sono Sophia. E lei è Marie, la mia migliore amica."
"Incantato, signorine. Micael aveva ragione. Sei un fiore raro, Sophia." la voce di Gabriel era come quella di Micael. Armoniosa, melodiosa, dolce, calda, suadente, profonda. E i suoi modi erano altrettanto garbati e gentili. L'unica differenza che riuscivo a notare tra i due, in quel momento, era la maggiore forza che Micael metteva in tutto ciò che faceva. I suoi movimenti, le sue parole, anche il suo respiro. Tutto in Micael era armonizzato da una certa forza. Una forza che aveva su di me uno stranissimo ascendente.
"Cosa ci fai qui, Micael?" chiesi, per spezzare lo strano silenzio che si era venuto a creare dopo l'affermazione di Gabriel.
"Io sono sempre e ovunque... non ho bisogno di essere qui o essere lì. Sono dove è necessario che io sia." rispose serio. Gabriel lo fissò con aria di rimprovero, mentre io e Marie non potemmo fare altro che ridere alla sua frase.
"Che risposta d'effetto, Micael." dissi sorridendogli. "Davvero, cosa ci fate qui?"
Fu Gabriel a rispondermi, Micael rimase immobile a fissarmi e a sorridere.
"Quello che fate voi, giovane nuova amica. Lasciamo che le preoccupazioni e le ansie quotidiane vengano cancellate dall'aria di festa e gioia che si respira qui." i suoi occhi erano magnetici, proprio come quelli di Micael. La loro somiglianza era sbalorditiva, tanto che non potei fare a meno di chieder loro che legame avessero.
"Micael, perdona la mia domanda forse troppo personale, ma voi due siete in qualche modo parenti?" chiesi, cercando di non invadere troppo la sua intimità.
Lui mi rispose con la solita dolcezza che utilizzava quando si rivolgeva a me e la cosa mi piaque come sempre.
"Più o meno, Sophia. Possiamo dire di si." Gabriel annuì a sua volta, sempre sorridendo.
Marie, ad un tratto, si alzò in piedi e si scusò dicendo che doveva tornare a casa; capii che lo faceva per lasciarmi sola con lui. La ringraziai con uno sguardo ed un sorriso mentre Gabriel si offrì di riaccompagnarla a casa, cosa che lei accettò di buon grado. Era impossibile non fidarsi di persone come loro, ma soprattutto era impossibile per chiunque contraddirle o negare il loro aiuto. Era come se possedessero entrambi uno strano e affascinante potere di persuasione.
"buon proseguimento di serata, Sophia. E' stato un piacere, per me, conoscerti. Spero ci sarà una nuova occasione per incontrarti" disse. I suoi modi erano talmente garbati da sembrare irreali. Nessuno si era mai rivolto a me in quel modo, a parte Micael.
"E' stato un piacere anche per me, Gabriel. Davvero." i miei modi, in confronto, sembravano terribilmente cafoni.
In un batter d'occhio, mi ritrovai da sola con lui.
"Hai voglia di fare una passeggiata, Sophia?" mi chiese senza distogliere il suo sguardo dal mio neppure per un istante.
Annuii, sorridendo. Lui per tutta risposta avvicinò la mano alla mia, con dolcezza, e ne accarezzò il dorso con la punta delle dita, quasi a testare la mia reazione al gesto che avrebbe fatto da lì a poco. Quando si sentì sicuro la strinse forte alla sua e mi fece strada tra la folla. Lasciavo che mi facesse strada, seguendo ad occhi chiusi la scia profumata che lasciava dietro di se inebriandomi di essa. Prima che potessi rendermene conto eravamo dall'altro lato della piazza, in direzione del boschetto di aceri che costeggiava il paese.
Ero felice. Quella sera ero più felice che mai.
Ma non potevo immaginare, in quel momento, che da lì a poco avrei avuto delle sorprese che avrebbero cambiato per sempre il mio modo di vedere le cose, il mio modo di vivere la vita.
Il mio modo di amare.

venerdì 28 novembre 2008

Il quinto frammento - Sguardi che angosciano e il desiderio dell'incontro

Quando tornai a casa, quella mattina, mia madre non mi rivolse la parola neppure una volta, come se il mio stato d'animo non la sfiorasse minimamente. Mio padre, invece, non fece che fissarmi tutto il tempo, con sguardo carico di tristezza mista a compassione. Sapevo che mi capiva, ma sapevo anche che lui non poteva fare assolutamente nulla per cambiare la situazione. Amava mia madre, ma ciò che sapevo con certezza assoluta era che oltre ad amarla ne era succube e dipendente. Non potevo biasimarlo. Non potevo avercela con lui. Non conoscevo approfonditamente ciò che avevano vissuto entrambi in passato e non pretendevo di capire le motivazioni che li avevano spinti ad essere ciò che erano.

Era la mia famiglia, dovevo accettarla così com'era. Ma prima o poi, mi ripetevo in continuazione, avrei affrontato mia madre a viso duro e le avrei detto tutto ciò che pensavo. Ma quello non era ancora il momento giusto, non ero ancora abbastanza forte e matura da poterlo fare.

I giorni trascorsero velocemente, dal mio incontro con Micael nella piazza del paese,e nella mia mente continuavano a riaffiorare le immagini di quella mattina. La sua elegante camminata tra i piccioni che non si scomodarono a volare via al suo passaggio, le sue dita che raccoglievano quella lacrima rimasta sul mio viso, i suoi profondissimi occhi che mi fissavano, la colomba bianca appollaiata sul rosone della chiesa che ci fissava impietrita.
C'era qualcosa in Micael che mi turbava al punto da togliermi il sonno, qualcosa che non riuscivo a spiegare in alcun modo. La cosa che però mi assillava più di tutte era il modo in cui era riuscito ad estrapolare dalla mia anima i pensieri più tristi e intimi su mia madre, con estrema semplicità. Nessuno prima di allora aveva saputo ascoltare le mie parole in quel modo tanto interessato quanto distaccato. Era come se il suo interessamento per me fosse spinto più dalla curiosità che da altro. Tra tutti i miei amici, per quanto pochi fossero, nessuno era mai stato in grado di mettermi nelle condizioni tali da aprire completamente il mio cuore; probabilmente questo era dovuto anche alla mia grande timidezza e riservatezza, ma il punto della questione non era affatto quello.

Un pomeriggio più tardi, mi recai al centro del paese a fare acquisti per la mia passione; mi ero accorta di avere terminato alcni colori, quali il blu e il rosso, essenziali per poter creare il mio colore preferito. Nessuno dei quadri che dipingevo poteva dirsi terminato se almeno un piccolo dettaglio non fosse stato colorato di viola.
Tutti i negozi più forniti si trovavano intorno alla piccola piazza antestante la chiesetta, essendo quello il luogo del paese più frequentato in assoluto; tra loro vi era anche il negozietto di belle arti del signor Pablo, un simpatico omino fuggito dalla Spagna e istallatosi definitivamente presso di noi. Per una donna, mi disse una volta, aveva lasciato la Spagna, ma non capii mai se da quella donna fuggiva o se la aveva seguita fin dove si trovava ora. Avrei sempre voluto chiederglielo, ma non ero una persona talmente tanto sfacciata da poterlo fare. In fondo, lui era soltanto l'omino spagnolo che mi vendeva i colori e i pennelli.
La piazza era gremita, come sempre, di bambini che urlavano e si rincorrevano mentre le loro madri passavano il tempo tra una drogheria e un pettegolezzo. Prima di entrare nel negozio, mentre mi accingevo ad aprire la porta d'entrata, qualcosa mi spinse a voltarmi verso la chiesa e istintivamente alzai gli occhi verso il rosone. La vidi. Quella colomba bianca era lì, come quella mattina, e mi stava fissando. La cosa iniziò ad incutermi un certo timore e presa da questo entrai velocemente nel negozio, continuando a guardarmi indietro come per accertarmi che lo strano, candido uccello non mi seguisse.
"Buongiorno Sophia" esclamò il signor Pablo.
"Oh, buongiorno a lei... scusi la foga con cui sono entrata." risposi. Effettivamente ero entrata nel negozio con la grazia di un elefante.
"Non devi scusarti. Dimmi, cosa ti porta qui oggi?" chiese gentilmente.
"Io... avevo bisogno di alcune cose." balbettai. Non era l'imbarazzo a impedirmi di parlare ma l'ansia che quella dannata colomba mi stava mettendo addosso.
"Vediamo... cosa ti serve? aspetta aspetta, provo ad indovinare. Hai bisogno del ciano e del rosso carminio, vero?" domandò sogghignando.
"Sono così prevedibile?" risposi sorridendo cortesemente.
"No, assolutmente. Sono io che posso leggere nel pensiero!" rispose ridendo, mentre si recava nel retrobottega a prendere ciò che volevo.
In attesa del suo ritorno, mi avvicinai alla vetrina del negozio e buttai lo sguardo al rosone, per controllare. La colomba era sparita e la cosa mi rassicurò non poco.
Non era l'uccello in sè ad angosciarmi ma il modo in cui mi fissava. Quei suoi piccoli occhi immobili e fissi su di me. In fondo ero perfettamente in grado di capire che un uccello non avrebbe mai potuto farmi del male.
Poco dopo, il signor Pablo tornò con i miei colori e un pennello, che io non gi avevo chiesto.
"Questo è un piccolo omaggio per te, Sophia. Sentirai che piacere srà utilizzarlo. Le sue setole sono morbidissime ma tenaci." Mi piaceva ascoltarlo parlare. Non aveva perduto affatto il suo accento spagnolo, e adoravo quella cadenza.
"La ringrazio, signor Pablo. E' dvvero molto gentile." ringraziai con gentilezza e riconoscenza per il dono che mi aveva fatto e dopo aver pagato mi apprestai ad uscire per tornare a casa.
Una volta fuori dal negozio mi incamminai con passo lento, con il mio sacchetto tra le mani. Giravo il mio sguardo continuamente, prima a destra poi a sinistra; non stavo controllando però se a colomba fosse ancora lì a fissarmi. No, il mio pensiero in quel momento era diventato un altro. Speravo di vederlo. Pregavo di incontrarlo di nuovo. Non ne conoscevo il motivo, sapevo solo che provavo un irrefrenabile desiderio di parlare ancora un po' con lui. Micael. Il suo nome era diventato il sottofondo musicale della mia anima e la cosa non mi dispiaceva. Tutt'altro.
Oramai ero quasi arrivata a casa e di lui, neanche l'ombra. Purtroppo capii che dovevo rassegnarmi all'idea di non incontrarlo.
Quando stavo per accingermi ad infilare la chiave di casa nella serratura una folata di vento fortissimo mi scompose i capelli e i vestiti. Non sapevo perchè, ma sentii di dovermi voltare. Non lo feci subito, però. Attesi quel tanto che bastava per udire una voce familiare e desiderata alle mie spalle.
"Perdonami se ti ho fatta aspettare, Sophia."
Lui era lì, dietro di me.
Mentre mi voltavo, lasciai che una parte dei miei capelli cadesse davanti al mio viso, quasi per schermare il mio imbarazzo e la mia gioia dal suo sguardo.
"Perchè ti scusi? Non avevamo un appuntamento." risposi.
"Non mi stavi aspettando?" chiese garbatamente, con un piccolo ghigno abbozzato sul volto.
Dopo un attimo di esitazione risposi "si", malcelando tutto l'imbarazzo che stavo provando per quella risposta.
"Non sentirti imbarazzata, Sophia. Anche io desideravo incontrarti di nuovo."
La sua risposta mi riempì il cuore di gioia. Anche lui desiderava incontrarmi, non ero la sola a volerlo.
"Come facevi a sapere... no, nulla, lascia perdere." dissi.
"A cosa stai pensando, Sophia?"
"Beh... ecco... quando sei arrivato, tu hai detto perdonami se ti ho fatta aspettare. Come facevi a sapere che ti stavo aspettando? Come facevi a sapere che speravo di incontrarti?"
Si avvicinò lentamente a me e accarezzò i miei capelli, amorevolmente, delicatamente. Sentii dei brividi fortissimi percorrermi tutta la schiena. Inclinai leggermente la testa, quel tanto che bastava per sfiorare con la guancia la sua mano.
"Importa?" mi chiese, socchidendo gli occhi e abbozzando un sorriso.
"No, non importa." risposi arrendevolmente. In fondo era vero. Cosa importava? Lui era lì, davanti a me, e mi stava accarezzando i capelli. Avrei fermato il tempo se avessi potuto farlo. Sarei rimasta immobile a lasciare che lui mi accarezzasse i capelli in eterno. Un leggero soffio di vento portò al mio naso il suo profumo; aveva l'odore di erba bagnata dalla rugiada. Quel profumo non mi era mai sembrato tanto bello come allora.
"Torni subito dentro o vieni a fare una passeggiata con me?" mi chiese.
Purtroppo il tempo era volato ed oramai era sera inoltrata. Non potevo attardarmi ancora fuori, i miei genitori si sarebbero adirati. Era usanza, in famiglia, cenare tutti insieme e non potevo contravvenire alla regola.
"Credimi, vorrei tanto. Ma non posso farlo. I miei genitori mi aspettano." dissi.
"Va bene. Ci sarà l'occasione per farlo." sorrise. Avvicinò le sue labbra alla mia fronte e vi posò su un bacio delicatissimo. Quel gesto, tipico di mio padre che mi augurava la buonanotte, assunse tutt'altro valore fatto da lui.
Si allontanò di qualche passo, senza darmi le spalle e fece un cenno di resa con le spalle.
"Ciao, Micael." dissi.
Lui attese qualche istante e disse quello che il mio cuore voleva sentirsi dire in quel momento.
"Io sono innamorato, Sophia. Non so come hai fatto, non ne conosco la ragione. Ma sono innamorato di te." il suo sorriso mi parve ancora più grande e bello del solito.
"Lo stesso vale per me, Micael." aggiunsi io. L'imbarazzo mi fece voltare di scatto e infilai la chiave nella serratura. Prima di aprire la porta sentii nuovamente una forte folata di vento, dietro di me. Mi voltai. Lui non c'era più.
Varcai la soglia di casa e socchiusi la porta piano, scrutando il vialetto con attenzione per cercare di scorgere nuovamente la sua immagine. Lui era innamorato di me.
Io mi ero innamorata di lui.
La nostra storia, quella che avrebbe portato entrambi in luoghi sconosciuti e inaspettati, quella sera aveva avuto inizio.



venerdì 21 novembre 2008

Il quarto frammento - Con gli occhi fissi sull'anima

I suoi occhi erano fissi su di me e sembravano sorridere dolcemente. Non parlava, non si muoveva, sembrava non respirare neppure. Mi fissava e basta, ma la cosa non mi infastidiva, tutt'altro. Sarei rimasta sospesa in quell'attimo con lui per l'eternità.
I rintocchi della campana della chiesa spezzarono bruscamente quel momento e la quiete di quei piccioni e quelle colombe che, spaventati, si levarono in volo tutti insieme in un rumorosissimo frullio d'ali. Soltanto una colomba, bianchissima, rimase immobile al centro della piazza, quasi volesse approfittare del momento di solitudine per accaparrarsi più briciole possibile. Ma invece di farlo, iniziò a fissarci con quei suoi piccoli occhietti neri.
Micael fissava me, la colomba fissava entrambi, in un scena che aveva assunto dei connotati quasi comici. Sorrisi.
Però, più passava il tempo, più iniziavo a provare una frustrante sensazione d'angoscia. Entrambi quegli sguardi iniziavano a farsi pesanti, sul mio corpo.
Mi levai in piedi e cercai di dire qualcosa per togliermi da quella stranissima situazione.
"Micael, c'è una colombella che ci stà fissando."
"Lasciala perdere, continua a guardar me." rispose lui, senza accennare nessuna espressione all'infuori di quella che aveva assunto da quando aveva iniziato a guardarmi.
"Ma... mi sento un po' in imbarazzo." dissi. La colomba iniziò a saltellare verso di noi e il suo incedere si faceva sempre più svelto. Micael si voltò è fece cenno di fermarsi con la mano al piccolo uccello bianco.
La colomba si fermò all'istante e lì rimase a fissarlo negli occhi. Sembrava quasi stessero comunicando in qualche modo e vederli entrambi così intenti in quel fare mi affascinava.
Micael si voltò di nuovo verso di me e mi sorrise. La colomba spiegò le ali e si alzò in volo per poi sparire dietro la chiesa.
"Beh, era affascinata dagli esseri umani, direi." dissi scostando i miei occhi dalla morsa dei suoi.
"Diciamo di si." rispose. "Perchè mai distogli lo sguardo, Sophia? Hai paura di me?"
"No, assolutamente. Dovrei averne?" chiesi.
"Non lo so. Io non sono te."
"E tu? Avresti paura di te stesso?"
"A volte si, altre volte no."
"Beh, come tutti gli esseri umani, direi."
"Perchè, Sophia? Tu hai paura di te stessa?" mi chiese dolcemente, con fare quasi infantile. Sembrava un bimbo curioso che pone milioni di domande ai genitori, anche se le domande in questione erano leggermente più serie di quelle di qualcuno che non sa ancora niente della vita. Eppure il modo di porle era identico. Sembrava gli interessasse conoscere qualcosa di cui non possedeva memoria alcuna.
"A volte si, altre volte no" risposi sorridendo. Tornai a sedere sulla panchina dalla quale mi ero alzata e lui mi seguì. Nel sedersi posò la sua mano sulla mia e sentii nuovamente quella fortissima sensazione di benessere che avevo provato la prima volta che mi aveva toccata.
"Perchè a volte hai paura di te stessa, Sophia?" incalzò.
"Più che provare paura per me stessa, la provo per le sensazioni che a volte mi rendo conto di vivere e sentire." le parole iniziarono ad uscire da sole dalla mia bocca, non riuscivo a porvi freno.
"Provi sensazioni sbagliate?" continuò a chiedere.
"Si."
"E quali sono queste sensazioni che non dovresti provare?"
"Odio, rabbia, frustrazione." continuavo a rispondere alle sue domande senza rendermene conto.
"Ma queste sono emozioni umane. E' normale provarle, Sophia."
"Non è normale se l'oggetto di queste è colei che ti ha dato la vita." iniziai a piangere come una bambina. Tutto ciò che avevo accumulato in quelle poche ore del mattino stava fuoriuscendo dal mio corpo, sotto forma di parole e lacrime. E anche se il tutto avveniva senza che io lo volessi non riuscivo a meravigliarmene.
"Tu non ne hai colpa, Sophia. La tua è una reazione e come tale non è possibile biasimarla o condannarla. Cosa vorresti da lei?" mi chiese.
"Io... io vorrei solo essere amata."
"E credi che lei non ti ami?"
"Non lo credo, ne sono certa."
"Chi ti dà questa certezza? Puoi avere una certezza su tante cose. Sull'immensità del cielo, sulla freschezza della pioggia che scroscia sul prato, sulla profondità dell'oceano o sul cinguettio di un uccello. Ma sui sentimenti altrui, Sophia, non puoi permetterti di avere certezza, perchè questa non la possiede nemmeno chi li prova, quei sentimenti."
"Stai dicendo che lei non mi odia?"
"Sto dicendo soltanto che non puoi avere la presunzione di scovare nel baule del cuore altrui sentimenti e sensazioni. L'intensità di queste, la loro natura, la loro forza la conosce soltanto il legittimo proprietario." rispose pacatamente.
Aveva ragione, ma non riuscivo ad accettarlo.
"Proprietrio. Ne parli come se fossero delle cose tangibili."
"Perchè lo sono. Quelle che stanno scendendo dai tuoi occhi, adesso, cosa sono?"
"Lacrime."
"Non sono solo lacrime. In questo momento sono la forma tangibile del tuo dolore." rispose. E sorrise. Quel sorriso mi sciolse il cuore più delle parole che mi aveva rivolto.
Guardai la luce dei primi raggi del sole illuminare i suoi bellissimi capelli. Notai i riflessi argentati che questi avvano e me ne innamorai, più di quanto non fossi già innamorata di quel misterioso individuo.
"Toglimi una curiosità. Cosa ci fai in un posto simile all'alba?"
"Sono qui per questo." rispose, lasciando che una lacrima rimasta sul mio viso scivolasse sulle sue dita. La portò vicino le labbra e la leccò delicatamente.
La sua risposta non mi stupì, ma il suo gesto si. La dolcezza con cui lasciò che una frammentaria parte del mio essere si posasse sulle sue dita e poi sulle sue labbra mi avvolse il cuore e la mente.
"Il quadro. Quando lo terminerai?" mi chiese.
"Presto." risposi di getto.
"Bene. Non vedo l'ora di vederlo."
Il primo sole del mattino aveva portato con sè le prime anziane signore che iniziarono ad affollare la piazzetta in attesa dell'inizio della messa. Alzando lo sguardo verso il rosone della chiesa notaai ancora quella bianca e strana colomba che continuava a fissarci imperterrita e imperscrutabile.
Anche Micael se ne accorse e subito dopo si congedò con garbo.
"Io devo andare, Sophia."
"Anche io devo tornare a casa. Spero... no, nulla." non riuscii a terminare la frase.
"Anche io spero di rivederti presto." disse lui, incamminandosi verso il vialetto che conduceva dietro la chiesa.
Attesi che la sua sagoma sparisse dietro l'angolo per incamminarmi a mia volta. Alzai nuovamente lo sguardo verso il rosone e notai che anche la colomba era andata via.
Mentre avanzavo verso la strada principale, una forte raffica di vento si alzò, scuotendo tutto ciò che c'era intorno, il mio intero essere compreso.

martedì 4 novembre 2008

Il terzo frammento - Il respiro che purifica il cuore da parole che feriscono l'anima

Quella notte non riuscii a chiudere occhio. I pochi attimi vissuti con Micael tornavano a turbare la mia mente ogni qual volta chiudessi gli occhi. Continuai tutta la notte ad annusare la mia mano, quella che lui mi aveva stretto, con la convinzione che vi fosse rimasto impresso il suo odore, qualcosa di lui, magari quella strana piuma tatuata.
Trascorsi quelle interminabili ore di veglia forzata ad ascoltare il battito del mio cuore e il fluire del mio respiro nell'aria, permettendo loro di cullare l'immagine che i miei occhi continuavano a proiettare sulle pareti buie della stanza.
La sua voce continuava a rindondare nelle mie orecchie, senza darmi tregua, senza lasciarmi possibilità di scampo alcuno; ma la cosa non mi irritava, tutt'altro.
Mi voltai più volte a guardare la sveglia posta sul mio comodino, fino a che non mi accorsi che il mattino era oramai giunto e io avevo trascorso tutta la notte senza dormire neanche per un istante.
Mi levai dal letto, per nulla assonnata, e mi recai in bagno a darmi una sistemata; dovevo necessariamente rendermi il più possibile presentabile. Mia madre si sarebbe accorta senza difficoltà che avevo passato la notte in bianco e da lì sarebbe partita la predica che sarebbe sicuramente sfociata in un brusco litigio.
Il mio risentimento nei suoi confronti non doveva essere alimentato in alcun modo, quindi dovevo necessariamente evitare qualsiasi tipo di discussione con lei. Il suo austero modo di fare, la sua intransigenza, il suo denigrante atteggiamento nei confronti di mio padre avevano avuto il solo merito di mostrarmi il tipo di persona che io non sarei mai dovuta diventare.
Scesi le scale in silenzio, per paura di svegliare i membri della famiglia che erano ancora tra le braccia di Morfeo a quell'ora e mi diressi in cucina per preparar loro la colazione. Spremute d'arancia, pane tostato con marmellata e qualche frittella calda con le fragole e lo sciroppo d'acero. Stavo pensando a cosa avrebbero gradito di più quando entrai in cucina e vidi mia madre già intenta a fare ciò che avrei voluto fare io. La cosa mi irritò non poco ma cercai di non darglielo a vedere.
"Buon giorno mamma." dissi, avvicinandomi a lei.
"Già in piedi? Bene, stai imparando." fu la sua risposta.
"Si mamma, sto imparando." ritrassi la mano con cui stavo per toccarle la spalla e mi voltai nervosamente. Mai una parola carina nei miei confronti, mai un gesto materno. Mi stupivo di come un uomo dolce come mio padre avesse potuto sposare o amare una donna del genere. Inizialmente credevo che il mio fosse solo il classico astio adolescenziale nei confronti della figura materna, quel periodo di ribellione che tutti prima o poi passano nella propria esistenza. Ma quel periodo durava da lungo tempo; oramai avevo ventidue anni e mi rendevo conto di come la realtà fosse proprio quella che avevo sempre immaginato. Mia madre era una donna rigida, inflessibile e fredda come il ghiaccio. Non lasciava trasparire emozione alcuna, neppure nei confronti dell'uomo che aveva accanto e che a mio vedere rappresentava il sentimentalismo e il romanticismo fatto carne.
"Ti do' una mano a preparare la colazione?" chiesi. Conoscevo la risposta che mi avrebbe dato, ma non mi sarei aspettata ciò che aggiunse in seguito.
"No, grazie, faccio da sola." non si voltò neppure per rispondermi. La cosa mi irritava da morire. "E poi, cosa vuoi aiutare? Si tratta di cucinare, non di spennellare su una tela. Tu resta al tuo posto e io resto al mio. Chissà se troverai mai un uomo in grado di cucinare. Almeno lo farà lui al posto tuo."
La sua risposta mi ferì. Come al solito. Quella volta però notai ancora più astio nelle sue parole. Mi alzai e uscii dalla cucina senza dire nulla; cosa avrei potuto dirle? Mentre mi accingevo a salire le scale per tornare in camera mia incrociai mio padre che stava scendendo per la colazione.
"Buongiorno angelo mio." mi disse sorridendo. Scoppiai in lacrime sentendo la sua voce e le sue parole, che involontariamente misi a confronto con le parole appena udite da mia madre.
"Tesoro mio, cosa c'è?"
"Nulla papà, nulla." non avevo mai parlato a mio padre del modo in cui lei mi faceva sentire, delle parole che mi rivolgeva, dell'astio che percepivo nel suo sguardo. Ma lui lo sapeva. Ne era cosciente ma non poteva fare nulla.
Dinanzi a mia madre tutte le persone diventavano incapaci di reagire, quasi temendo il suo oscuro potere intimidatorio. Non mi stupivo che mai nessuno ci venisse a trovare. La colpa era sua.
"Vuoi andare a fare due passi?" mi chiese, sollevandomi il mento con la mano sinistra.
"Credo che andrò da sola. Tu vai pure a fare colazione. Grazie." risposi. Mi voltai e tornai al piano inferiore, prendendo la giacca e dirigendomi all'ingresso.
"Volevo preparare le fritelle." dissi a voce bassa.
"Mentre farò colazione, chiuderò gli occhi e immaginerò di mangiare quelle." mi disse sorridendo dolcemente. La sua voce e il suo modo di parlarmi avevano il potere di far tornare la pace dentro di me.
Il vialetto era completamente deserto e il suono dei miei passi risuonava nel silenzio del mattino. Cercavo di svuotare la mia mente e il mio cuore dalla tristezza che la donna che chiamavo mamma mi aveva causato, per l'ennesima volta. Immaginavo che l'aria che respiravo, una volta uscita dal mio corpo portasse via con se una piccola parte del mio dolore, un piccolo frammento di tristezza. Non mi resi conto di quanto avevo camminato fino a che non mi ritrovai dinanzi alla piccola chiesa del paese.
La piazzetta dinanzi ad essa era popolata di piccioni e colombe bianche che picchiettavano con foga il suolo in cerca di cibo. Cercando di non disturbarli mi avvicinai ad una panchina e sedetti in silenzio ad osservarli. Poco dopo mi accorsi di non essere sola. Prima ancora di alzare lo sguardo, verso la panchina dirimpetto la mia, sapevo già chi fosse l'altra presenza. Non so spiegare come, ma sentivo dentro di me la sua presenza.
"Buongiorno Sophia." mi disse, gettando del pane raffermo ai piccoli volatili intorno a lui.
"Che coincidenza, eh Micael?"
"Il caso non esiste, Sophia." rispose senza esitazione, quasi come se conoscesse ciò che avrei detto.
"Deduco che tu mi abbia seguita, quindi."
"Assolutamente no. Non ho bisogno di seguirti. Io sono sempre stato con te, dal momento in cui ci siamo conosciuti." si alzò e iniziò ad avanzare verso di me. La cosa che mi colpì particolarmente fu il fatto che, pur camminando tra di loro, i piccioni non si preoccuparono minimamente della sua presenza e continuarono a picchiettare il suolo senza spostarsi di un millimetro. Se mi fossi alzata io, quegli uccelli sarebbero volati via in un attimo.
Invece erano ancora lì e lui camminava in mezzo a loro come se fosse un piccione qualunque.
"Davvero? Ma io non ti ho visto." dissi appena me lo trovai a pochi centimetri.
"Ero qui." disse, toccando con il suo dito indice la mia fronte e poi, spostandosi in giù verso il petto "e qui". Si fermò sul cuore, senza toccare il mio corpo in quel punto, da vero gentiluomo.
"E io?" chiesi, iniziando a sentirmi vagamente in imbarazzo.
"Tu eri qui." disse coprendosi gli occhi con la punta delle dita.
La mattinata iniziata male iniziava a prendere una piega decisamente migliore.

giovedì 23 ottobre 2008

Il secondo frammento - La leggerezza di una piuma tra le mani, la delicatezza delle parole sul cuore

"E' un bellissimo quadro, signorina." disse.
"Grazie, signore. Lei è davvero molto gentile." risposi, malcelando un sottile entusiasmo.
"Oh, no, non è gentilezza. E' sincerità." ribatté lui, sorridendomi con dolcezza. "Come mai tutta sola, qui?"
"E' un bel posto. C'è pace. E la natura è incontaminata e selvaggia. E' il posto ideale per dipingere." fu la mia risposta. Mi sentivo stranamente nervosa dinanzi a tanta affabilità e cercavo di nasconderlo indirizzando il mio sguardo altrove, giocherellando con i capelli.

"E per fare nuove conoscenze." concluse lui.
"Sono Sophia." dissi, stupendomi di tanta audacia. Ero conosciuta dai più per essere una ragazza estremamente timida e introversa.
"Incantato, Sophia. Se non sbaglio significa saggezza. Un bellissimo nome per una meravigliosa fanciulla." mi disse, mentre si accovacciava ai piedi dell'albero senza togliermi gli occhi di dosso.
"E lei è?" chiesi, avvicinandomi a lui quel tanto che bastava per notare che sul dorso della mano aveva uno splendido tatuaggio. Era inusuale che a quei tempi un uomo mostrasse con tanta disinvoltura un tatuaggio, tra l'altro in un posto così visibile agli occhi della gente. Era una bellissima piuma bianca e argentata.
"Io sono innamorato." mi rispose sorridendo e socchiudendo gli occhi come se avesse avuto il sole difronte.

"Davvero?" chiesi. Voleva prendermi in giro e decisi di stare al suo gioco. "Nemmeno lei mi è indifferente." civettai, continuando a stupirmi di quanta sfacciatagine stavo dimostrando per la prima volta in vita mia.
"Cosa? Ma io parlavo del suo dipinto! Vorrei acquistarlo!" rispose lui, fingendo di essere sorpreso.
La sua risposta riportò a galla la mia natura timida e impacciata e mi sentii d'un tratto il fuoco in viso.
"Oh mamma, che figuraccia. Mi perdoni." risposi, iniziando a guardarmi intorno per non incrociare lo sguardo di lui.
"Io sono Micael" mi disse d'un tratto, quasi avesse finalmente notato il mio estremo imbarazzo per la situazione. "E stavo scherzando. Non sull'essere innamorato, ma sull'oggetto del mio interesse. Sono innamorato di lei."

A quelle parole una vampata di calore pervase il mio corpo e dovetti sedere sul prato per evitare di cadere come un frutto maturo dall'albero.
"Le mie parole la mettono in difficoltà?" mi chiese e la risposta che riuscii a dargli fu soltanto un brusco scossone con il capo. Non mi era mai accaduto prima di allora di provare delle sensazioni così forti nei confronti di uno sconosciuto. A dir la verità, non mi era mai capitato di provarle per nessuno; non riuscivo nè a parlare, nè tantomeno a muovermi. Rimasi immobile a fissare la sua piuma bianca e argentata.
"Dove ha imparato a dipingere in questo modo?" mi chiese, forse per rompere il ghiaccio che si era venuto a creare.
"Ho sempre amato disegnare, ma non ho mai avuto la possibilità di frequentare una scuola o un corso, quindi diciamo che sono autodidatta."
"Non esistono gli autodidatti, esistono i talentuosi. Lei ha talento, Sophia." mi disse gentilmente. Non riuscivo a capire se le sue parole fossero sincere o solo di circostanza, ma cercai di non farmene un cruccio. In fondo, si trattava sempre e comunque di complimenti e una donna non può fare altro che accettarli con garbo. E un pizzico di esaltazione.
"La ringrazio, Micael."
"Mi dia del tu. Dica, grazie Micael."
"Grazie Micael."
"Mi piace come pronuncia il mio nome. " mi disse sorridendomi con gli occhi. Quegli occhi. Avrei desiderato morirvi dentro tanto erano belli e profondi.
"Beh, però dammi del tu a tua volta." dissi per sviare il discorso.
"Va bene, Sophia, ti darò del tu."
Restammo in silenzio per lunghi attimi. Attimi in cui lui non faceva che osservare prima il mio quadro, poi me, poi ancora il mio quadro e di nuovo me.
"Quel dipinto dice molto di te, sai?"
"Davvero? E cosa ti dice?" chiesi, quasi volessi sfidarlo.
"I colori predominanti sono il blu e il viola."
"Beh, mi sembra ovvio, questo lo vedrebbe chiunque." dissi prendendolo in giro.
"Lasciami finire. A differenza di ciò che si dice, ovvero che blu e viola sono dei colori freddi, quelle tinte sono in realtà ricche di significati profondi e intimi. Il blu è il colore della quiete, della pacatezza. Inoltre è il colore della capacità di adattamento. Sei una ragazza tenace ma delicata al tempo stesso e il tuo adattarti ad ogni situazione è un punto di forza molto importante per una donna." disse, iniziando ad accarezzare una radice dell'albero che fuoriusciva dal terreno. I suoi gesti erano delicati e affettuosi, quasi come se stesse accarezzando un gattino accoccolato accanto a lui.
"Interessante" dissi "e il viola?"
"Oh, dolce fanciulla, il viola è il colore che preferisco. E che tu preferisci. Il viola denota la metamorfosi interiore, la voglia di cambiamento radicale. Questo è ciò che desideri nel profondo del tuo cuore." si alzò in piedi e mise entrambe le mani nelle tasche dei pantaloni.
"Inoltre, è il colore della magia e del mistero. E dell'unione degli opposti, del diverso."
le sue parole erano rese ancora più affascinanti dal suo tono di voce. Mai prima di allora avevo udito un simile timbro vocale in un uomo.
"Eh si, nella mia vita c'è tanta magia e tanto mistero." dissi ridendo, mentre mi levavo anche io in piedi. Mi porse la mano, per aiutarmi, e stringendola sentii un vortice di emozioni pervadere il mio corpo.
"Non immagini nemmeno lontanamente quanto veritiere siano le parole che hai appena detto, Sophia. Non lo immagini." sorrise, ritraendo la mano e voltandosi.
"Si è fatto tardi, devo andare dolce fanciulla." mi disse.
Mi intristii di colpo, non volevo che andasse via ma non potevo fermarlo.
"E' stato un piacere conoscerti, Micael." fu l'unica cosa che riuscii a dirgli.
"Oh no, Sophia, il piacere è stato interamente il mio." si incamminò verso la strada, voltandosi una o due volte prima di raggiungerla.
Volevo fermarlo, ma non trovavo nessuna scusa per poterlo fare; ero consapevole, anche se non ne capivo il motivo, di voler rimanere in sua compagnia ancora a lungo. Cercai di farmi forza e prima che sparisse dietro la linea d'orizzonte gli urlai:
"Posso rivederti?" non ho mai saputo da dove provenisse tutto il coraggio e la sfacciataggine che avevo tirato fuori quel pomeriggio.
"Certamente, devo venire a prendere il quadro. Non darlo a nessun'altro, mi raccomando." disse. La sua voce era bassissima e il rumore del vento che si era alzato improvvisamente la coprì parzialmente. Eppure, riuscii a sentire con perfezione ciò che aveva detto.
Mi voltai verso il quadro, toccandomi il viso; era bollente. Quell'uomo misterioso aveva letteralmente fatto divampare delle fiamme dentro di me.
Guardai il cielo e notai che era improvvisamente diventato buio. Era ora di tornare a casa.

martedì 21 ottobre 2008

Il primo frammento - La profondità di uno sguardo, l'inevitabilità di un marchio sul cuore

Il giorno che lo incontrai per la prima volta resterà impresso nella mia memoria per tutta la vita. Marchio indelebile sul mio cuore. Quella mattina, avevo deciso di recarmi in una radura un po' distante da casa per dedicarmi a me stessa; questo significava staccare la spina dal resto del mondo circostante ed immergermi nell'unica cosa che mi rendeva davvero consapevole di essere viva. Dipingere.
Attesi pazientemente che il sole fosse abbastanza alto nel cielo da illuminare la strada e mi accomodai in sella alla mia bicicletta, tela e colori ben saldi sulla schiena.
L'aria era ancora fresca, quel flebile sole appena sveglio difficilmente avrebbe potuto scaldarla con velocità, ma io amavo la sensazione di quel fresco benessere sulle gambe mentre pedalavo e di conseguenza non me ne preoccupavo.
Quando arrivai alla radura la trovai ancora completamente sopita; nessun rumore aleggiava nell'aria, gli uccelli non avevano ancora iniziato a cinguettare e nessun alito di vento agitava le foglie degli alberi e i fili d'erba appesantiti dalla rugiada. Era uno spettacolo meraviglioso, ma non era quello che volevo dipingere su quella tela.
Avevo deciso, comprandola con i miei sudati risparmi, che ciò che avrei dipinto su quella trama sarebbe stato qualcosa di speciale, qualcosa che fosse davvero degno di essere rappresentato. Qualcosa che non sarebbe mai dovuto morire e che avrebbe dovuto restare per tutta la mia vita così come io lo avevo visto.
E così fu.
Stesi una stuoia di paglia sul prato, all'ombra di un grande albero, e sedetti frugando dentro la borsa, in cerca della mela verde che avevo preso nel cesto della frutta per fare colazione.
Lentamente la radura iniziò ad animarsi e la mia solitudine forzata essò di essere; le farfalle iniziarono a danzare sui fiori sparsi qua e là sul prato e gli uccelli iniziarono il loro meraviglioso e assillante concertino. Alzai gli occhi al cielo e tra i rami dell'albreo che mi faceva da rifugio scorsi qualcosa.
Un nido di pettirosso faceva capolino tra le foglie verdi e rigogliose e mi sembrò di notare al suo interno delle uova ancora chiuse. Sorrisi, pensando alla magnificenza della vita e a ciò che era in grado di fare la natura. Il momento di dipingere giunse con ciò che vidi abbassando lo sguardo verso la linea dell'orizzonte; le nuvole che sovrastavano la radura e le colline circostanti si tinsero d'oro e cremisi allo stesso tempo e tutta la natura intorno mi sembrò quasi sottomessa a tanta imponenza.
Sistemai la tela sul cavalletto e mi armai di carboncino per imprimere un abbozzo di ciò che i miei occhi stavano osservando. Fotografai nella mia testa ogni più piccolo e insignificante particolare di quella scena, ogni singolo movimento che potevo notare intorno a me, cercai di trasformare in immagine qualsiasi suono pervenisse alle mie orecchie.
Mi alienai completamente dalla realtà, immergendo ogni fibra del mio corpo nel disegno che si veniva a delineare nella mia mente. Viola intensi, azzurri sgargianti e blu profondi. Ciò che vedevo assumeva quelle colorazioni, l'immagine che avevo davanti mutava forma e sostanza attraverso i miei pennelli, pur non perdendo la connotazione di imponenza e maestosità che aveva in realtà.
Ero fatta così. Il mondo come lo vedevo, per quanto meraviglioso e affascinante, attraverso i miei occhi aveva sempre subito modifiche d'impatto. Non perchè ciò che era non mi piaceva, semplicemente perchè il famoso velo di Maja dinanzi ai miei occhi trasformava le cose così come io le preferivo.
Pur ssendo completamente assorta in ciò che stavo facendo, mi accorsi che qualcuno mi stava osservando da lontano. Era lì da un po', immobile come una pietra; sembrava far parte integrante del paesaggio che avevo intorno. Quella visione non mi scosse più di tanto, il fatto che mi stesse osservando non mi infastidiva affatto. Eppure, c'era qualcosa in quell'individuo che continuava a richiamare la mia attenzione; i miei occhi, per quanto cercassi di controllarli, continuavano a girarsi verso la sua parte di paesaggio.
Fino a che non lo vidi più.
Posai il pennello e la tavolozza sul prato e iniziai a guardarmi intorno, prima a destra, poi a sinistra. Quell'individuo era sparito. Mi avvicinai ala tela ed iniziai ad osservarla per cercare particolari che non mi convincessero appieno, ma per la prima volta in vita mia tutto mi sembrò perfetto. Sorrisi e ripresi in mano il pennello.
"E' un quadro bellissimo." disse una voce alle mie spalle. Mi voltai e lo vidi chiaramente. Era l'uomo di poco prima che, come un silenziosissimo gatto, si era avvicinato a me senza che io me ne accorgessi.
"Come dice, scusi?" chiesi.
"E' davvero un bellissimo quadro, signorina." ribadì, avvicinando il suo volto alla tela, come se volesse penetrare con il suo essere l'essenza del mio dipinto. La sua voce era calda, suadente, quasi tangibile nell'aria. E i suoi occhi erano splendidi; non erano le sue labbra a sorridere, erano quei meravigliosi e profondissimi occhi azzurri.
E furono proprio quegli occhi che, contro la mia volontà, mi trascinarono inesorabilmente nel vortice del mio primo, vero, grande amore.

martedì 7 ottobre 2008

Prologo - Un nuovo sogno d'amore, un nuovo paio di ali.

Ho sempre desiderato l'amore. Ho cercato a lungo, fino a che non l'ho trovato. Che esso si celasse in un luogo inaspettato, però, non avrei mai potuto immaginarlo.

Ho sempre sognato un rifugio caldo e accogliente tra le braccia di un'altro individuo. E ho vagato al freddo in gelide strade, per lungo tempo, fino a che non ho potuto immergermi in quell'abbraccio tanto anelato. Che quell'abbraccio fosse tanto accogliente da perdere completamente i sensi, però, non avrei mai potuto immaginarlo.

Ho sempre decantato l'importanza e la potenza dell'amore, senza conoscerne il reale senso. Quando l'ho conosciuto, ho capito che ciò che decantavo era in realtà ancora più importante e potente di quanto io credessi. Ma che quella potenza e quella importanza fossero tali da annullare completamente la totalità dell'essere, però, non avrei mai potuto immaginarlo.

Sognare e desiderare l'amore. Questa è sempre stata la priorità della mia vita. Perchè credo fermamente che il vero motore dell'universo sia quel sentimento controverso e ammaliatore.
Svegliarsi la mattina e, con gli occhi semichiusi, accorgersi della presenza di un altro essere accanto al proprio cuscino. Cercare affannosamente con i piedi freddi e intorpiditi il contatto di altri piedi altrettanto freddi e intorpiditi e scaldarli gli uni con gli altri. Accarezzare una testa spettinata sussurrando dolcemente buongiorno.
Una rosa fresca di giardino, con i petali ancora ornati da gocce di rugiada, accanto alla tazzina del caffè bollente a colazione.
Trascorrere le giornate in attesa di una parola d'affetto e comprensione, girovagare per la casa con gli occhi sempre fissi sul telefono che sembra non voglia squillare mai abbastanza.
Provare nuove ricette in cucina, aggiungendoci quel tocco personale che il più delle volte mina il risultato finale, con la speranza che siano apprezzate da chi le assaggerà. Magari dicendoti ti amo.
Queste sono le cose che ho sempre sognato per me.
Può sembrare stupido, irrazionale e terribilmente romantico, ma sono una donna. Cosa c'è al mondo di più irrazionabilmente romantico di una donna sognatrice?
Alcune donne sognano la carriera, la fama, la gloria; io ho sempre ammirato quelle donne così dannatamente testarde e tenaci. Ma io non sono come loro, io ho sempre bramato altro. Amore, per l'appunto. E per me, questo, non vuole assolutamente significare accontentarsi. Ho sempre desiderato quell'amore che brucia, consuma, toglie il respiro e annulla l'individualità dell'essere in funzione della coppia.
E dire che il nome che porto dovrebbe essere sinonimo di saggezza e virtù.

I sogni spesse volte restano tali. I miei, anche se non propriamente come io mi aspettavo, si realizzarono almeno in parte.
Purtoppo, non posso dire fortunatamente.

...nulla è inutile. Ogni essere ha la propria ragione d'esistere...

...nulla è inutile. Ogni essere ha la propria ragione d'esistere...

...e il riflesso nello specchio sarà ciò che l'individuo desidera...

...e il riflesso nello specchio sarà ciò che l'individuo desidera...

... non si può ignorare l'inevitabilità degli eventi...

... non si può ignorare l'inevitabilità degli eventi...